Il “librillo”, com’ebbe a chiamarlo lo stesso autore, oltre a rappresentare un archetipo per un genere letterario destinato ad affermarsi nell’isola, in particolare con Alberto La Marmora e D.H. Lawrence, conteneva acute osservazioni sullo stato della Sardegna, soffermandosi in particolare sul multilinguismo (con la dimostrazione pratica del Padre Nostro in latino, catalano e sardo; Arquer padroneggiava anche il toscano e il castigliano) e sulle abitudini del clero, rozzo e ignorante, con un’inclinazione smodata al concubinaggio e relativa generazione di figli illegittimi. L’atteggiamento moralizzatore nei confronti della chiesa cattolica (benché ribadisse devianze nei costumi ecclesiastici già segnalate un secolo prima da Pio II), il giudizio negativo sui metodi dell’Inquisizione e la vicinanza ai protestanti svizzeri furono fatalmente strumentalizzate dai feudatari di Aymerich per portarlo davanti al tribunale. Intanto, ottenuta l’intercessione per il padre, al quale come risarcimento venne conferito il Cavalierato ereditario, Sigismondo ebbe modo di farsi apprezzare alla corte imperiale, in particolare dal futuro Re di Spagna Filippo II. Nonostante il prestigio ottenuto che gli fruttò l’incarico di avvocato fiscale per la Sardegna, Arquer fu fatto oggetto della congiura dei feudatari guidati dagli Aymerich e finì una prima volta davanti all’Inquisizione. Il padre riuscì a trasferire il processo in Spagna e, grazie all’intercessione di Filippo II, Sigismondo venne assolto. Probabilmente, i feudatari tentarono anche di avvelenarlo, senza successo. Ma una volta divenuto di dominio pubblico il contenuto e le circostanze della pubblicazione di Basilea, Aymerich e i suoi riuscirono a farlo incarcerare a Toledo nel 1563. Quest’accanimento dei feudatari era dovuto al fatto che Arquer si era fatto promotore di una causa contro alcuni di essi, tra cui Pietro Aymerich, per l’assassinio dei due fratelli del Magistrato Selles, a sua volta intimidito e oltraggiato, il quale aveva accusato i feudatari di illecite speculazioni sul grano.
Arquer si difese strenuamente, rendendo palese l’infondatezza delle accuse ed evidenziando le intenzioni vendicative che mossero i feudatari ad architettare il loro castello accusatorio, citandoli nome per nome, nonostante, nel processo inquisitorio, gli accusatori dovessero risultare anonimi. Ma, nella generale psicosi causata dallo scisma di Lutero, contenuto e circostanze della pubblicazione furono sufficienti per incastrare definitivamente il brillante avvocato cagliaritano. Dopo otto anni passati tra interrogatori e torture, Sigismondo Arquer venne giustiziato sul rogo a Toledo il 4 giugno del 1571. Secondo la tradizione, la sua agonia venne abbreviata da un soldato che gli infilzò il costato con una lancia, non si sa se mosso a compassione per le sue atroci sofferenze o per desiderio di infierire ulteriormente sul presunto eretico. Durante gli anni della prigionia scrisse una Passione in castigliano, divisa in 45 strofe di dieci versi ottonari ciascuna, nella quale trasfigurò la propria persecuzione in quella subita nella Via Crucis dal Salvatore. Scoperta casualmente tra le carte del processo custodite nell’Archivio Nazionale di Madrid, la Passione conferma la qualità letteraria di Arquer anche nella poesia e rappresenta un archetipo per il dramma sacro fiorito in Sardegna tra seicento e settecento.