[Terza puntata della Rubrica Nella pancia del drago]
Fantasy e mappe: un binomio indissolubile. Uno strumento per l’orientamento del lettore gentilmente fornito dall’editore o più una questione atavica di afferrare il Nulla con le mani e fare del vuoto materia pulsante? (That’s power-writing!)
Ma veniamo a noi: sii un bravo cartografo. Le mappe nel fantasy sono una vera e propria dichiarazione d’intenti e da questo ne consegue una certa reazione da parte del lettore medio. Si sa, ci sono lettori che quando aprono un libro e vedono una mappa lo chiudono il più velocemente possibile, prima che l’occhio possa cadergli su nomi colmi di H e K e toponimi del tipo “Montagne della Morte Orrenda” e “Boscotranquillo”; ci sono altri che, invece, se aprono un libro e non vedono una mappa, non lo comprano.
Prendersi la briga di pagare un disegnatore competente (sì, perché no-mappa è meglio che mappa-brutta) e offrire a inizio del viaggio letterario un supporto per l’orientamento sono un atto così significativo? Si potrebbe dire di sì. Ossequiando di nuovo Margaret Atwood e il suo In Other Worlds (Nan A. Talese/Doubleday, 2011), si potrebbe partire dall’origine: il cervello umano, lo straordinario computer senza il quale il nostro essere e il come lo raccontiamo non sussisterebbe. Senza entrare nell’ambito della neuroscienza, si potrebbe dire semplicemente che il cervello è un’entità creatrice di mappe. Vale per l’organismo ameboide costituito da un unico grande sistema nervoso che, con istinto-macchina, traccia il territorio circostante per identificare ciò che gli permette di sopravvivere, così come per noi sapiens, infanti avventurieri gatton gattoni nel salotto di casa tra sedie, tavoli e spigoli assassini.
Oltre il salotto sta, sussiste, incombe, il regno delle tenebre: lo stanzino. Ogni mappa, anche la più elementare, mentale prima che materiale, ha un bordo che non è altro che il limite tra il noto e l’ignoto. Nelle mappe medievali, i primi cartografi pionieri erano soliti disegnare, ai limiti del pezzo di terra che avevano strappato al buio, idre e leviatani, quasi a esorcizzare che là il buio e i suoi misteri continuavano. L’ignoto, per un essere finito, incarna una componente di infinito, e al limite della nostra coscienza, là dove finisce il noto, stanno i mostri. Oltre quei bordi è il regno della fantasia.
Isole, perlopiù: luoghi lontani, separati dal resto del mondo, mondi a sé con regole proprie, terre fatte mito agli occhi dell’osservatore esterno. L’uomo iniziò però a navigare, a scoprire e a dare nome e volto a ciò che prima non ne aveva, accadde così che la realtà divenne terribilmente reale e la fantasia dovesse trovare altri regni ignoti da plasmare. Ecco il nodo fondamentale: la perpetua ricerca di noi esseri narratori. È un dato di fatto che un “fenomeno” non può albergare nel “noumeno” da cui si separò senza con ciò perdere il senno. Parimenti, l’atto che distrugge l’illusione dell’ignoto, la mappatura, è paradossalmente l’unico che salvaguarda la nostra integrità mentale.
Nel fantasy, genere letterario che si occupa dell’altrove, la mappa è una dichiarazione di intenti perché ricorda, prima allo scrittore stesso e di conseguenza al lettore, che ciò che si sta tentando è l’essenza stessa della creazione ex nihilo. Questa grande metafora è trasposta apertamente in molti dei capisaldi del genere. Si pensi a Sir Terry Pratchett (si sottolinea il cavalierato per meriti letterari) e al suo umoristico Discworld, che conta all’attivo ben 39 romanzi. A prescindere dalla mappa del mondo in sé, l’idea stessa del Mondo Disco è una mappa: un mondo concreto, con le sue regole e le sue leggi, che altro non è che un disco piatto sorretto da quattro elefanti che girano sul dorso di una tartaruga gigante che fluttua nello spazio profondo. Quella di Pratchett, mascherata da humor, è la provocazione del genio, perché l’assurda locazione del mondo e la sua origine non hanno alcuna importanza: l’importante è la sua finitezza, strappata al nulla.
Mondo Disco risponde addirittura a principi fisici propri, e il concetto viene da Pratchett rimarcato: su Discworld la realtà può essere materialmente plasmata dalle aspettative e dalle credenze che gli esseri intelligenti hanno su di essa. Il principio della narrazione è perciò forza creatrice, il narrativium, ed è un vero e proprio elemento quantistico. Lo stesso identico principio, anche se in termini più simbolici, è la colonna portante di un altro universo fantastico che abbiamo già avuto modo di citare: Fantàsia, di Michael Ende. Seppur sembra esserne sprovvista, Fantàsia è una mappa in sé. I regni di Fantàsia non hanno limiti, essa è infinita nelle sue diramazioni, direttamente proporzionale alla capacità degli uomini di immaginarla, ma così facendo essi le danno de facto una forma, spazio e tempo contrapposti all’unico principio fisico inverso, il Nulla, che corrode Fantàsia là dove l’uomo smette di immaginarla. Ende coglieva paradossalmente con la metafora quello che è un grande traguardo della meccanica quantistica: la posizione di una particella è sempre relativa, mai assoluta, perché il solo atto di osservarla ne modifica i tratti.
In fondo, fisica e letteratura fantastica hanno la stessa missione: cercare di tracciare le mappe del fantastico mondo della realtà, che è in eterno movimento. Alla prossima puntata.
Ci ritroviamo on line il 03/06/2013 con la puntata n. 4 della Rubrica Nella pancia del drago: Salve, sono il Signore Oscuro.
Il fantasy è spesso epica. Per essere epico deve includere la primordiale lotta tra il bene e il male. E ovviamente il male è vestito di nero, ed è CATTIVO! CATTIVISSIMO!!!
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