Sii un bravo cartografo

Creato il 03 maggio 2013 da Sulromanzo

[Terza puntata della Rubrica Nella pancia del drago]

Fantasy e mappe: un binomio indissolubile. Uno strumento per l’orientamento del lettore gentilmente fornito dall’editore o più una questione atavica di afferrare il Nulla con le mani e fare del vuoto materia pulsante? (That’s power-writing!)

Caro lettore, continua il nostro viaggio gastrointestinale alla ricerca delle rotte fondamentali che tracciano il genere fantasy. Qui nella Pancia del Drago si sono già visti due tipi di rivolta: la prima, quella – attesa – dei “realisti”, e la seconda, quella inaspettata, degli stessi “fantastici”. Ai primi, il redattore prigioniero, vorrebbe dire una parola per tranquillizzare: giuro sui Grandi Antichi che non importunerò più la memoria letteraria di Jane Austen ma, proprio dovendo, scoccherò qualche freccia su Émile Zola. Ai secondi volevo dire che non c’è persona che stima il ruolo letterario di grossi rettili sputafuoco più del sottoscritto, e che l’ironia può essere spesso doppia, se non tripla.

Ma veniamo a noi: sii un bravo cartografo. Le mappe nel fantasy sono una vera e propria dichiarazione d’intenti e da questo ne consegue una certa reazione da parte del lettore medio. Si sa, ci sono lettori che quando aprono un libro e vedono una mappa lo chiudono il più velocemente possibile, prima che l’occhio possa cadergli su nomi colmi di H e K e toponimi del tipo “Montagne della Morte Orrenda” e “Boscotranquillo”; ci sono altri che, invece, se aprono un libro e non vedono una mappa, non lo comprano.

Prendersi la briga di pagare un disegnatore competente (sì, perché no-mappa è meglio che mappa-brutta) e offrire a inizio del viaggio letterario un supporto per l’orientamento sono un atto così significativo? Si potrebbe dire di sì. Ossequiando di nuovo Margaret Atwood e il suo In Other Worlds (Nan A. Talese/Doubleday, 2011), si potrebbe partire dall’origine: il cervello umano, lo straordinario computer senza il quale il nostro essere e il come lo raccontiamo non sussisterebbe. Senza entrare nell’ambito della neuroscienza, si potrebbe dire semplicemente che il cervello è un’entità creatrice di mappe. Vale per l’organismo ameboide costituito da un unico grande sistema nervoso che, con istinto-macchina, traccia il territorio circostante per identificare ciò che gli permette di sopravvivere, così come per noi sapiens, infanti avventurieri gatton gattoni nel salotto di casa tra sedie, tavoli e spigoli assassini.

Oltre il salotto sta, sussiste, incombe, il regno delle tenebre: lo stanzino. Ogni mappa, anche la più elementare, mentale prima che materiale, ha un bordo che non è altro che il limite tra il noto e l’ignoto. Nelle mappe medievali, i primi cartografi pionieri erano soliti disegnare, ai limiti del pezzo di terra che avevano strappato al buio, idre e leviatani, quasi a esorcizzare che là il buio e i suoi misteri continuavano. L’ignoto, per un essere finito, incarna una componente di infinito, e al limite della nostra coscienza, là dove finisce il noto, stanno i mostri. Oltre quei bordi è il regno della fantasia.  

Come si è accennato nella puntata uno, nel regno dell’ignoto tutte le manifestazioni del nostro inconscio, tutti i nostri paradisi e i nostri inferni sono materializzabili in un luogo tutto per loro, là, da qualche parte oltre: l’Atlantide platonica, perduta nel mistero del mare; l’arturiana Avalon, isola-regno avvolta dalle nebbie; le isole uto-distopiche del viaggiatore per antonomasia, Gulliver, tra cui la più emblematica ed equivoca Laputa, il castello nel cielo a cui il maestro Hayao Miyazaki ha donato vita su schermo; sino ad arrivare a Stevenson e al suo L’isola del tesoro, la cui mappa l’autore disegnò molto prima di intrecciarci sopra una storia.

Isole, perlopiù: luoghi lontani, separati dal resto del mondo, mondi a sé con regole proprie, terre fatte mito agli occhi dell’osservatore esterno. L’uomo iniziò però a navigare, a scoprire e a dare nome e volto a ciò che prima non ne aveva, accadde così che la realtà divenne terribilmente reale e la fantasia dovesse trovare altri regni ignoti da plasmare. Ecco il nodo fondamentale: la perpetua ricerca di noi esseri narratori. È un dato di fatto che un “fenomeno” non può albergare nel “noumeno” da cui si separò senza con ciò perdere il senno. Parimenti, l’atto che distrugge l’illusione dell’ignoto, la mappatura, è paradossalmente l’unico che salvaguarda la nostra integrità mentale.

Nel fantasy, genere letterario che si occupa dell’altrove, la mappa è una dichiarazione di intenti perché ricorda, prima allo scrittore stesso e di conseguenza al lettore, che ciò che si sta tentando è l’essenza stessa della creazione ex nihilo. Questa grande metafora è trasposta apertamente in molti dei capisaldi del genere. Si pensi a Sir Terry Pratchett (si sottolinea il cavalierato per meriti letterari) e al suo umoristico Discworld, che conta all’attivo ben 39 romanzi. A prescindere dalla mappa del mondo in sé, l’idea stessa del Mondo Disco è una mappa: un mondo concreto, con le sue regole e le sue leggi, che altro non è che un disco piatto sorretto da quattro elefanti che girano sul dorso di una tartaruga gigante che fluttua nello spazio profondo. Quella di Pratchett, mascherata da humor, è la provocazione del genio, perché l’assurda locazione del mondo e la sua origine non hanno alcuna importanza: l’importante è la sua finitezza, strappata al nulla.

Mondo Disco risponde addirittura a principi fisici propri, e il concetto viene da Pratchett rimarcato: su Discworld la realtà può essere materialmente plasmata dalle aspettative e dalle credenze che gli esseri intelligenti hanno su di essa. Il principio della narrazione è perciò forza creatrice, il narrativium, ed è un vero e proprio elemento quantistico. Lo stesso identico principio, anche se in termini più simbolici, è la colonna portante di un altro universo fantastico che abbiamo già avuto modo di citare: Fantàsia, di Michael Ende. Seppur sembra esserne sprovvista, Fantàsia è una mappa in sé. I regni di Fantàsia non hanno limiti, essa è infinita nelle sue diramazioni, direttamente proporzionale alla capacità degli uomini di immaginarla, ma così facendo essi le danno de facto una forma, spazio e tempo contrapposti all’unico principio fisico inverso, il Nulla, che corrode Fantàsia là dove l’uomo smette di immaginarla. Ende coglieva paradossalmente con la metafora quello che è un grande traguardo della meccanica quantistica: la posizione di una particella è sempre relativa, mai assoluta, perché il solo atto di osservarla ne modifica i tratti.

In fondo, fisica e letteratura fantastica hanno la stessa missione: cercare di tracciare le mappe del fantastico mondo della realtà, che è in eterno movimento. Alla prossima puntata.  


Ci ritroviamo on line il 03/06/2013 con la puntata n. 4 della Rubrica Nella pancia del drago: Salve, sono il Signore Oscuro.
Il fantasy è spesso epica. Per essere epico deve includere la primordiale lotta tra il bene e il male. E ovviamente il male è vestito di nero, ed è CATTIVO! CATTIVISSIMO!!!

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