L’inglese è la lingua per eccellenza della sintesi. Un esempio: ‘ One Trick Pony’. Vecchio termine dispregiativo, nato nell’ambiente circense, che indica una persona capace solo in una cosa, con un solo talento, senza il quale sarebbe destinato alla mediocrità più assoluta. Nei confronti di un film la cosa non cambia: pellicola meritevole di menzione solo per un aspetto, non obbligatoriamente centrale. La Casa Muda, horror di Gustavo Hernandez, è esattamente questo: una curiosità, niente di più. Chi scrive è certo che come lui nessuna delle persone in sala, uscendo e rinfilandosi nel denso flusso di gente che animava le stradine di Cannes, ha pensato anche solo per un secondo che quel piccolo film paraguaiano appena visto avrebbe un giorno avuto un remake. Il sottoscritto, in un articolo riguardante la pellicola in questione, si poneva una domanda: “Riemergiamo dalle ombre ostili de La Casa Muda e dal buio della sala e ci chiediamo: l’assenza di trama o volendo l’estrema essenzialità narrativa è sintomo di mancanza di idee?” La risposta di molti è stata un sonoro si.
Quale era quindi l’unico asso nella manica di questo pony? Come molti ricorderanno è il fatto che gli ottanta minuti circa del film, girato interamente con una fotocamera Cannon Mark II, compongono un unico piano sequenza (anche se più di un dubbio è stato sollevato al riguardo). Come è naturale che sia, è proprio questo aspetto tecnico il punto di legame maggiore tra l’originale e Silent House, entrato in concorso al Sundance quest’anno. La trama del rifacimento americano, comunque molto simile all’originale, va all’incirca come segue. Sarah ritorna con il padre nella vecchia casa in campagna, prossima alla vendita, per concludere la ristrutturazione e finire di inscatolare tutto. Il lavoro da fare è tanto: l’umidità ha creato cumuli di muffa sui muri e annerito l’intonaco, manca l’elettricità e i vetri alle finestre sono rotti. La giovane ragazza è evidentemente presa da qualche tipo di turba psichica, soffre di continui mal di testa e la sua memoria è costellata da buchi neri. Anche il rendimento scolastico non è dei migliori e si ritrova a lavorare con il padre, figura dominante, autoritaria e per l’adolescente infantilizzante. La storia, quella vera, ha inizio quando lo zio Peter, aggregatosi per dare una mano, entra in una lite con il padre e nel cuore della notte se ne va con l’unica auto, lasciando genitore e figlia da soli nelle ombre della casa silenziosa.
Dietro la macchina da presa troviamo Chris Kentis e Laura Lau, che avevano già realizzato il primo come regista e la seconda come produttrice i dimenticabili Open Water (2003) e Grind (1997). Le reazioni al film finora sembrano un dejà vu di quelle dell’anno scorso per l’originale, i commenti, sia positivi che non, sembrano essere identici. Tanto per cominciare, come si può leggere nei commenti sul web degli spettatori che hanno assistito alla prima, anche in questo caso l’accusa principale è quella di non essere composto da un piano sequenza puro, ma di avere almeno due tagli ben visibili (quello più palese avviene quando Sarah, sprovvista d’un tratto di una qualsiasi fonte di luce, si ritrova immersa nel buio pesto e lo schermo diventa nero). Dall’altra parte invece, note positive sono elargite nei confronti della protagonista Elisabeth Olsen, sorella delle ben più famose gemelle Mary Kate e Ashley, come del resto complimenti simili erano andati anche a Florencia Colucci, brava davvero nel ruolo equivalente dell’originale.
Insomma, tra critiche e lodi, al di là di dibattiti fini a se stessi e tutto sommato inutili su espedienti tecnico-narrativi, anche questo Silent House, come Open Water e La Casa Muda, ha il retrogusto blair witchiano dell’operazione senza pretese, tutto marketing, basata su una semplice curiosità. Another one trick pony.
Eugenio Ercolani