Me lo chiedevi spesso se desideravo che tu cambiassi taglio. Se ti volevo con l’acconciatura corta, lunga, riccia, liscia, bionda o addirittura rossa. Che poi andavi bene comunque, purché ti aggrappassi a me stringendo tra i pugni un pezzo di camicia qua, guarda, proprio dietro ai fianchi.
Ti tengo nel cassetto, ogni tanto ti prendo e ti sistemo oltre il piatto, al centro della tavola: spengo la televisione e ti parlo. Mi salvo così dalle idiozie che ci costringono a vedere e dal campionario di cose inutili che vorrebbero farci comprare. Un mondo dorato, per soli belli e vincenti, da conquistare sgomitando per accaparrarsi un posticino lì davanti, ad ogni costo, pur di superare l’anonimato di maschere erranti.
Ho ancora molte cose da dirti, soffocate da qualche parte. Ne abbiamo avute sempre, anche se sono stato parsimonioso quando non avrei dovuto. E sì che a te sarebbe bastata una parola, una soltanto, per non andare via. Ma non ho saputo tirarla fuori, non sono nemmeno riuscito a capire il senso della tua attesa. Una richiesta di perdono, credo. Ma a chi? Non a te. Non ne avevi bisogno per credermi capace di cancellare il marchio di dolore impresso sulla tua anima.
All’amore, sì. Chiedere scusa all’amore, questo avrei dovuto fare. Perdono per averlo sottovalutato, per avere a ogni ritorno trovato una scusa nuova, buona per giustificare la mia sordità. Come se in amore tutto sia dovuto, conseguente. Come se l’amore non richieda la dedizione del giardiniere. «Non è il momento, ora»: un momento trasformato in anni e infine cristallizzato qui, nella solitudine di parole stanche e mulinate nel vuoto della stanza. Chiedere perdono per avere assecondato l’inganno di un ombrello che non possedevo, per averti costretta a bere il sale delle lacrime misto alla pioggia gelida di febbraio.
L’amore fa compagnia alla tua fotografia, rinchiuso nel cassetto dal giorno in cui mi dicesti che ogni volta che mi guardavi era una pugnalata al cuore, da quando mi urlasti che avevi paura ad amarmi. Resiste, avvinghiato alla bellezza tinta d’arcobaleno dei tuoi vent’anni folli e allegri. Così, per sempre.
Tu aspettavi le mie parole, io il tuo perdono muto. Senza la complicazione di troppe frasi rimuginate per giorni e mesi. Una storia sospesa tra sogno e morte. Tra la speranza del volo e l’incubo dell’abisso. Eppure dovevamo saperlo che la felicità è una luce intermittente, fortissima. Quando arriva, bisogna tenere gli occhi aperti e gustarsela tutta, perché poi non si sa quando ripasserà. Ne abbiamo avuto paura. Come durante un’eclissi di sole, eravamo terrorizzati dall’idea di ferirci gli occhi. Non siamo riusciti a capire che la felicità è essa stessa cecità, perché non ha bisogno di trovare conferme guardandosi attorno.
Forse avremmo rifatto tutto, anche a ripensarci ora, prostrati dal peso delle sconfitte. Chissà, forse è stato giusto così.
Pensieri fuori tempo, per sentirsi migliori senza molta convinzione. Se ragione c’è, è di chi crede che esiste sempre un prezzo da pagare, presto o tardi. Non basta non pensarci più di tanto, illudersi che il fluire della vita sia esso stesso vita o che si possa scappare all’infinito, lo sguardo fisso in avanti.
Uno spettacolo che rivivo al rallentatore fotogramma dopo fotogramma, fallimento dopo fallimento. A passo lento, sulle spalle ogni giorno più stanche la condanna dei miei venticinque anni eterni, impietriti sul molo dell’addio.
Ti guardo. Ora che esserci nemmeno potresti, sei qua. Nello spazio segreto dei miei silenzi, dove in fondo sei sempre vissuta.