Silvio è arrivato a Montecitorio puntualissimo e puntualmente a ripetuto al Parlamento tutto quello che aveva già fatto sapere nei giorni passati.
In discorso quindi che potrebbe sembrare inutile e che certamente non aggiunge nulla a quanto si sapesse sulle manovre che il governo intende mettere in atto per fronteggiare la crisi sul debito sovrano, ma che ha avuto però il merito di dare una risposta chiara alle richieste che sono giunte da varie fonti di dimissioni del premier per formare un governo tecnico.
Ebbene la risposta è stata forte e chiara: il governo non si dimetterà e non ci sarà nessun governo tecnico.
Certamente c'è stata delusione per la mancanza di chiarezza sui tagli alla spesa pubblica che tutti auspichiamo, soprattutto per quelli riguardanti gli emolumenti della classe politica e i partiti, per i quali si è scelto, come si sapeva, di rimandare il tutto negli anni a venire.
Inutile dire che a questo punto l'attenzione si sposta tutta sulla reazione che i mercati finanziari dimostreranno domani mattina e sono in tanti a pronosticare che sarà un'altra mattinata di lacrime e sangue per la borsa italiana e i titoli di stato, ma l'esperienza insegna che quasi mai la borsa si comporta come la maggioranza delle persone pensa che faccia (altrimenti sarebbe troppo facile guadagnare con i titoli azionari).
Quello che si può dire a quest'ora è che la borsa americana non è stata minimamente interessata al dibattito della nostra camera, tanto che alla fine dello stesso ha recuperato tutte le perdite e a chiuso in territorio positivo, dopo 9 chiusure negative.
Quello che però ha dimostrato il dibattito trasmesso in televisione è che tra i 600 e passa deputati presenti è sembrato che nessuno sapesse veramente che cosa sta succedendo sui mercati finanziari, esponendosi in analisi e considerazioni degne di una parodia cinematografica e che mi hanno fatto ricredere sulla mia convinzione che bisogna dimezzare il numero dei parlamentari.
Oggi sono invece convinto che per funzionare in modo ottimale il parlamento sarebbero sufficienti 150 eletti, che pare impossibile selezionarne un numero maggiore in grado di svolgere un lavoro efficace per la Nazione.
Un altro segnale importante è venuto oggi dalla Cina, attraverso la sua agenzia di rating Dagong.
I cinesi infatti, lamentando che l'operato delle società di rating, tutte americane, fossero troppo partigiane, hanno da qualche mese creato una propria agenzia che oggi ha rilasciato questo comunicato:
(ASCA-Afp) - Pechino, 3 ago - L'agenzia di rating cinese
Dagong critica i suoi concorrenti Usa per non aver ancora
tagliato il rating degli Stati Uniti sul debito pubblico
Usa.
Secondo la Dagong che, stamani, ha ridotto il rating degli
Stati Uniti da 'A+' ad 'A' con Outlook Negativo, la crescita
del debito nazionale statunitense ha superato quella
dell'economia e delle entrate fiscali e questo portera'
all'incapacita' di ripagarlo.
Per il presidente di Dagong, Guan Jianzhong, "le altre
agenzie di rating non hanno risposto chiaramente alla
decisione statunitense di alzare il tetto del debito. Credo
sia normale perche' le agenzie americane usano sempre un
doppio peso e i loro giudizi sono condizionati dai
profitti". In realta', secondo Jianzhong, "gli Usa hanno
dato l'impressione agli altri Paesi di essere un porto sicuro
mentre hanno da tempo un problema a rimborsare il debito".
Finora, le tre agenzie anglossassoni Fitch, Moody's e S&P,
si sono limitate a mettere l'Outlook Negativo sul debito a
stelle e strisce, ma non hanno tagliato il rating. Dopo
l'innalzamento del tetto del debito, Fitch e Moody's hanno
ribadito la probabilita' di un declassamento, mentre S&P non
si e' ancora espressa.
Un messaggio agli Usa che potrebbe sembrare controproducente per i cinesi, che essendo i principali creditori degli Usa sembrerebbe aver minato la qualità del credito del proprio debitore, ma è in realtà un chiaro avviso agli americani e a tutto il mondo della finanza internazionale che certi giochi sul rating dei debiti sovrani e sul cambio delle monete hanno stancato e che è ora invece di affrontare le cause strutturali della crisi economica, che negli Stati Uniti si è formata e si è espansa al resto del mondo.