Silvio Pellico (24 giugno 1789 – 31 gennaio 1854)

Creato il 31 gennaio 2012 da Marvigar4

   Lo svegliarsi la prima notte in carcere è cosa orrenda! “Possibile!” dissi ricordandomi dove io fossi “possibile! Io qui? E non è ora un sogno il mio? Ieri dunque m’arrestarono? Ieri mi fecero quel lungo interrogatorio, che domani, e chi sa fin quando dovrà continuarsi? Ieri sera, avanti di addormentarmi, io piansi tanto, pensando a’ miei genitori?”

   Il riposo, il perfetto silenzio, il breve sonno che avea ristorato le mie forze mentali, sembravano avere centuplicato in me la possa del dolore. In quell’assenza totale di distrazioni, l’affanno di tutti i miei cari, ed in particolare del padre e della madre allorché udrebbero il mio arresto, mi si pingea nella fantasia con una forza incredibile.

   “In quest’istante” diceva io “dormono ancora tranquilli, o vegliano pensando forse con dolcezza a me, non punto presaghi del luogo ov’io sono! Oh felici, se Dio li togliesse dal mondo, avanti che giunga a Torino la notizia della mia sventura! Chi darà loro la forza di sostenere questo colpo?”

   Una voce interna parea rispondermi: “Colui che tutti gli afflitti invocano ed amano e sentono in se stessi! Colui che dava la forza ad una Madre di seguire il Figlio al Golgota, e di stare sotto la sua croce! l’amico degl’infelici, l’amico dei mortali!”.

   Quello fu il primo momento, che la religione trionfò del mio cuore, ed all’amor filiale debbo questo benefizio.

   Per l’addietro, senza essere avverso alla religione, io poco e male la seguiva. Le volgari obbiezioni, con cui suole essere combattuta, non mi parevano un gran che, e tuttavia mille sofistici dubbi infievolivano la mia fede. Già da lungo tempo questi dubbi non cadevano più sull’esistenza di Dio, e m’andava ridicendo che se Dio esiste, una conseguenza necessaria della sua giustizia è un’altra vita per l’uomo, che patì in un mondo così ingiusto: quindi la somma ragionevolezza di aspirare ai beni di quella seconda vita; quindi un culto di amore di Dio e del prossimo, un perpetuo aspirare a nobilitarsi con generosi sacrifizi. Già da lungo tempo m’andava ridicendo tutto ciò, e soggiungeva: “E che altro è il Cristianesimo se non questo perpetuo aspirare a nobilitarsi?”. E mi meravigliava come sì pura, sì filosofica, sì inattaccabile manifestandosi l’essenza del Cristianesimo, fosse venuta un’epoca in cui la filosofia osasse dire: “Farò io d’or innanzi le sue veci”. Ed in qual modo farai tu le sue veci? Insegnando il vizio? No certo. Insegnando la virtù? Ebbene sarà amore di Dio e del prossimo; sarà ciò che appunto il Cristianesimo insegna.

   Ad onta ch’io così da parecchi anni sentissi, sfuggiva di conchiudere: “Sii dunque conseguente! sii cristiano! Non ti scandalezzar più degli abusi! non malignar più su qualche punto difficile della dottrina della Chiesa, giacché il punto principale è questo, ed è lucidissimo: ama Dio e il prossimo”.

   In prigione deliberai finalmente di stringere tale conclusione, e la strinsi. Esitai alquanto, pensando che se taluno veniva a sapermi più religioso di prima, si crederebbe in dovere di reputarmi bacchettone, ed avvilito dalla disgrazia. Ma sentendo ch’io non era né bacchettone né avvilito, mi compiacqui di non punto curare i possibili biasimi non meritati, e fermai d’essere e di dichiararmi d’or in avanti cristiano.

Silvio Pellico, Le mie prigioni, Capo III, 1832



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