Sinai, l’inferno dei fuggitivi africani, di Anna Bono

Creato il 08 ottobre 2013 da Wally26

Articolo originale tratto da La Bussola Quotidiana

L’ingresso in Europa sbarcando sulle coste italiane è il punto di arrivo di una delle tre principali rotte percorse dagli emigranti africani: quella che parte dall’Africa orientale e raggiunge la Libia risalendo il Sudan. Dall’Africa occidentale, invece, di solito gli emigranti confluiscono in Mauritania e di lì si dirigono in Marocco per imbarcarsi alla volta della Spagna o dirigersi anch’essi in Libia. Sia l’una che l’altra rotta sono estenuanti, costose e non esenti da rischi: non solo di naufragare su imbarcazioni stracariche, mal ridotte, alla deriva quando il carburante troppo “tagliato” usato dagli scafisti non riesce ad alimentare il motore, ma, prima ancora, di non sopravvivere alla traversata del Sahara o per gli stenti o per le violenze e gli abusi subiti dai trafficanti a cui gli emigranti si affidano. Inoltre le due rotte attraversano regioni infestate da gruppi armati e incrociano quelle dei mercanti di armi e di droga (proveniente dall’America Latina e destinata all’Europa),

Ancora più pericolosa, però, è la terza rotta, anche questa usata in prevalenza dagli africani originari dell’Africa orientale e in particolare dal Corno d’Africa, che attraversa l’Egitto, il Sudan e infine la penisola del Sinai con destinazione Israele: dal 2011, dopo la caduta di Gheddafi, scelta da un numero crescente di persone in alternativa a quella che porta in Libia a causa dell’instabilità di questo paese.

È nel Sinai che li aspetta l’inferno. Lì esiste un vero e proprio traffico di merce umana avviato dai Rashaida, una tribù sudanese. I Rashaida avevano iniziato, come tutti i trafficanti, chiedendo denaro per organizzare il viaggio verso Israele: nel 2008-2009 il costo andava dai 1.000 ai 2.000 dollari. Ben presto però hanno intravisto un modo più redditizio di approfittare degli emigranti: sequestrarli e chiederne il riscatto oppure rivenderli ad altre tribù, egiziane queste ultime, che a loro volta ne trattano il riscatto o vendono ad altri la “merce” che, di passaggio in passaggio, acquista sempre più valore fino a raggiungere le decine di migliaia di dollari.

Dapprima gli emigranti venivano sequestrati durante il viaggio. Poi i Rashaida hanno incominciato a rapirli nel campo profughi di Shegarab, in Sudan, vicino a Kassala, allestito dall’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, che ospita 86.000 profughi per lo più eritrei. Si appostano appena fuori dal campo a bordo di auto senza targa e agiscono praticamente indisturbati. Le richieste di riscatto vengono fatte via cellulare: «quando chiamano per chiedere i soldi del riscatto – racconta la dottoressa Alganesh Fessaha, eritrea, che lavora per l’organizzazione non governativa Gandhi e da anni si occupa dei propri connazionali in difficoltà – i prigionieri vengono picchiati, viene loro versata addosso dell’acqua, poi viene attaccata la corrente così che le scosse elettriche li facciano urlare di più». Oppure, per farli gridare, li bruciano con plastica fusa, benzina e acidi. Sentendone le urla e le richieste disperate di aiuto, i parenti raccolgono tutto il denaro che riescono a racimolare indebitandosi, se necessario, o chiedendo aiuto ad altre famiglie. Il pagamento avviene tramite i circuiti internazionali del money transfer. Terminata la transazione, il prigioniero viene quasi sempre rilasciato, se nel frattempo non è deceduto per malattia o in seguito alle violenze patite. L’ultimo rischio per il poveretto, quando viene liberato a poche centinaia di metri dalla frontiera israeliana, è di essere intercettato dalla polizia egiziana e ucciso prima di poter spiegare chi è e come mai si trova lì.

Il destino di chi non ha nessuno che sia in grado di riscattarlo è terribile. Finisce i suoi giorni come schiavo, costretto a lavorare in condizioni inumane nei campi e altrove. Altrimenti viene ucciso per espiantarne gli organi e venderli al mercato nero al Cairo. Neanche i bambini vengono risparmiati. Per loro, e per le donne, alle sevizie, si aggiunge l’incubo degli stupri.

In base alle testimonianze dei sopravvissuti e alle rilevazioni delle associazioni umanitarie che li assistono, si ritiene che dal 2009 a oggi siano circa 15.000 gli emigranti, in prevalenza somali ed eritrei, rapiti, 7.000 quelli vittime di torture e abusi e 4.000 i morti.

Con i riscatti, che in certi casi arrivano a 30.000, 40.000 e anche 60.000 dollari, e con la vendita di organi le bande di trafficanti acquistano tra l’altro armi di provenienza libica ed eritrea, in parte destinate a Gaza e usate contro Israele e contro la polizia egiziana. Lo spietato regime eritreo approfitta dei propri cittadini e infierisce su di loro anche quando sembra che siano riusciti a liberarsi dal suo giogo.

Considerazione:

Facile colpevolizzare e scandalizzarsi per le mancanze di questo o quello in Italia, il problema invece e’ internazionale perche’ col traffico di esseri umani ci lucrano tutte le organizzazioni mafiose. L’ONU invece di continuare a “studiare il fenomeno” e buttare milioni (di tutti, perche’ ogni stato paga la decima all’ONU) in consulenze, dovrebbe andare alla radice e stroncare queste attivita’ illecite. Domanda cruciale? Perche’ invece non lo si fa? Perche’ il traffico di droga, di armi e di esseri umani (prostituzione, pedofilia, trapianto organi, rituali satanici, esperimenti medici) ha un bel ritorno! Questo e’ lo stato del mondo che non riconosce la vita umana come sacra e inviolabile


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