Da Daniela Tomasella, mamma di Emma, ricevo e molto volentieri pubblico questo contributo:
“Le mie gravidanze sono sempre state fortunate: niente nausea, aumento di peso contenuto, pochi mutamenti di umore. Dopo essere rimasta incinta di Tommaso tutte le mie convinzioni sul dover fare l’amniocentesi sono svanite: “Il bimbo è mio – mi dico – cresce in me e sarà di sicuro sano”.
Rischi bassi, secondo alcuni esami. I movimenti del feto li percepisco già dal quarto mese e nemmeno la morfologica ha dati particolarmente rilevanti. Mi dicono “E’ una bambina e si muove davvero tanto!”. Certo che si muove, l’avverto nettamente, e con l’andar del tempo diventa quasi doloroso, tutto questo suo dimenarsi.
Poche spinte ed avverto la stessa sensazione provata con Tommaso, quella di aver partorito un polpo gelatinoso. Chiudo gli occhi e gioisco, pensando che non proverò mai più quel dolore. Interruttore OFF. Tutto passa. Niente sangue. Niente punti. Ed eccola, Emma! La mia creaturina… sul mio petto… com’è bruttina, però! Pazienza. Nemmeno Tommaso appena nato era bello. Guardo Giovanni, che mi bacia e mi stringe felice. Ora può rilassarsi, sorride e scherza con l’ostetrica e le infermiere. E va orgoglioso a vestire per la prima volta la sua bambina. Che gioia! Non posso desiderare di meglio!
O forse posso? Giovanni ritorna da me e il suo sorriso è velato, o forse sparito del tutto. Gli chiedo cos’ ha e lui mi risponde: “Quando Emma ha aperto gli occhi… mi ha quasi guardato… E i suoi occhi… i suoi occhi mi sono sembrati quelli dei bambini down”.
Lama nel cuore.
Ma come se ne può uscire con un’idea tanto remota e tremenda? Ma mi rendo conto che il tarlo è entrato. E quando mi portano Emma, scruto ogni millimetro del suo volto, per negare quell’ipotesi assurda. “Esci tarlo, vattene, io sono fortunata, unica, questo non potrebbe capitare a me, a noi… NO!”
E’ così che inizia la mia storia. Due anni e mezzo fa.
Scoprire di avere appena partorito un bambino disabile può essere devastante.
Il bambino perfetto che hai cresciuto in te per nove mesi, che hai sentito muoversi dentro di te, al quale hai cantato la ninna nanna, che hai chiamato per nome, che hai cullato dondolandoti, che hai immaginato bellissimo, sul cui futuro hai fantasticato per ore. Questo bambino non c’è più.
Al suo posto c’è un esserino dall’aspetto particolare, con occhi diversi, un pianto diverso, che si attacca al seno in maniera diversa, che viene guardato da tutti in maniera diversa, il cui futuro sarà triste e incerto.
E tu ti senti fluttuare sopra il letto d’ospedale, legata al tuo corpo da un filo sottilissimo, un filo che quasi vorresti si spezzasse per poterti far scappare lontano da quella realtà inaspettata e tremenda.
Cerchi di non pensare alle poche persone con sindrome di down che hai incontrato nella tua vita. Persone che hai guardato, giudicato superficialmente, ma mai conosciuto. Cerchi di non pensare a quella bambina down che hai visto mentre eri incinta e, toccandoti la pancia, avevi pronunciato: “Tu non sarai così vero?”.
Shock, dolore, rifiuto, rabbia e accettazione. Questi sono gli stadi di un processo doloroso.
E lentamente risali. Ci provi, ci credi. Per te, la tua famiglia, il tuo bambino appena nato, che da te chiede solo amore.
E cerchi di annullare ogni tuo pregiudizio, di far sì che sia il tuo bambino a scrivere il proprio destino.
Un destino che magari è scritto, ma non è di sicuro scontato.
Ho voluto creare un sito www.guardaconilcuore.org, perché credo nel significato del termine “ohana”. Ohana significa famiglia e famiglia vuol dire che nessuno viene abbandonato o dimenticato.
Quando è nata Emma ho passato notti intere in rete a cercare risposte alla mia infinita lista di domande. E anche se ho imparato cosa è la sindrome di down, quali sfumature genetiche può avere, quali sono le caratteristiche fisiche riconoscibili in un bambino con trisomia 21, a chi rivolgersi per chiedere l’indennità di frequenza o di accompagnamento non era questo quello di cui avevo bisogno.
Io volevo sapere come agire con Emma. Subito. Come parlarle, come sostenerla fisicamente vista la sua ipotonia, come stimolarla cognitivamente, senza, però, discriminarla come bambina “diversa”.
Volevo subito la risposta alla mia domanda più urgente: qual è il ritardo cognitivo di mia figlia? E la risposta più frequente era: Non si può sapere.
“…Dipende dall’entità di base del ritardo presente nelle principali funzioni, sia nella fase di sviluppo del bambino, che nell’età adulta. Questo ritardo è in parte recuperabile, con un intervento riabilitativo precoce, sistematico con particolare riferimento alle aree linguistiche, motorie e neuropsicologiche.”
Allora ho deciso di cambiare meta e di non fissarmi troppo su di una risposta, che mi sarebbe stata data solo dal tempo. Ma soprattutto di non etichettarla come “bambina down”, ma semplicemente come bambina, desiderata e amata, capace di stupirmi ogni giorno di più con i suoi progressi, e farmi scoprire una diversa prospettiva nel vedere le cose.
Riporto le parole di un caro saggio amico, Alessandro, che ben descrive come mi sento, e che dice:
“Il nostro mondo è sicuramente pieno di persone positive, che sanno andare ‘oltre’ il dolore e la rabbia di situazioni non desiderabili, che non negano i problemi, né li accantonano in un angolo dell’anima… ma nemmeno si macerano in essi, né nel rimpianto di ciò che poteva essere e non è stato. I nostri figli sono capaci di compiere in noi cambiamenti ‘epocali’… (non uso volontariamente la parola ‘meglio’… perché non è questo che voglio dire, aiutandoci a tirar fuori energie altrimenti non ‘attivabili’, che rimarrebbero inespresse e inutilizzate dentro di noi. In questo senso, sicuramente… ci cambiano, drasticamente… e ci aiutano a ‘crescere’… anche in età in cui questo verbo è di difficile applicazione.”
Io voglio vivere ogni giorno, dare il giusto peso alle cose, riconoscere le difficoltà che la vita ci riserva, cercare di superale, chiedendo e dando aiuto. Ed ogni volta ne esco con una diversa consapevolezza.
Con il mio sito vorrei contribuire ad abbattere lo stereotipo, che c’è dietro alla persona down, e che io stessa avevo, quando puntavo sulle abilità piuttosto che sulle disabilità.
Io amo Emma. Proprio così com’è. Perché Emma è un dono, come qualsiasi bambino e se non avesse la sindrome di down non sarebbe Emma, ma un’altra mia figlia. Con caratteristiche completamente diverse dal piccolo fiore che vedo crescere ogni giorno e che mi insegna a guardare con il cuore.
Daniela Tomasella