Sinestesia romana, cartoline migranti

Creato il 05 marzo 2016 da Pupidizuccaro

L’altro giorno ricordavo i tempi in cui si andava in vacanza, nelle estati a mezzo tra gli anni della scuola, e dall’Inghilterra o dalla Spagna – come da Venezia o da Firenze – si decideva di mandare una bella cartolina all’amico (ma più spesso all’amica), al cugino o al fratello che erano rimasti in Sicilia, ormai incalliti dalla noiosa routine sveglia tardi, bagno a mare, riposo pomeridiano e interminabile ricerca di cosa fare in serata. Si sceglieva con cura l’immagine, frutto di lunghissimi girotondi attorno agli espositori del tabaccaio o del negozio di souvenir; si tirava fuori dalla tasca il pizzino con l’indirizzo del destinatario appuntato prima di partire e poi si cercava di riprodurre, nei minuscoli centimetri quadri sul retro, l’umore del momento o anche solo la dolcezza del pensiero avuto per l’altro, imbrattando il saluto di punti esclamativi, disegni e faccine e persino – ricordo – messaggi diretti al postino, che facesse bene il suo mestiere consegnando il messaggio in bottiglia di noi viaggiatori.

La cosa ormai oggi impensabile, dinamica allora frequentissima – specie se la cartolina veniva mandata dall’estero – era tornare dal viaggio prima ancora della stessa e riabbracciare il destinatario dicendo (a meno di non volergli fare una sorpresa), ah senti, quand’ero lì ti ho spedito una cartolina, prima o poi ti arriverà. Passato qualche giorno o settimana, ti arrivava una telefonata – pronto, casa Bisanti? sono ***, c’è Marco? – e finalmente sapevi che il destino del messaggio era compiuto: la cartolina era arrivata e l’evento diventava una scusa per riprenderne il racconto o semplicemente rivedersi con il destinatario. Quanta familiarità avevamo con questa dinamica straniante, ma dolce e ancora romantica – nell’accezione che romantico oggi guadagna, di spazio vuoto e tempo irreale, mediano, che si fa occasione di racconto – se pensiamo al cinismo del tempo reale che oggi si concretizza nei click su Instagram.

Ad ogni modo, per smentire immediatamente il luogo comune dei “bei vecchi tempi andati” – che secondo Vonnegut non sono mai esistiti – e sfruttare questo mezzo come in fondo facciamo ormai dal 2009, abbiamo deciso con Tonino di sperimentare un botta e risposta sinestetico verbo-visivo da Roma a Milano e viceversa, così, per vedere l’effetto che fa e, in fondo, anche mettere insieme nell’ennesima forma diversa il nostro vivere l’espatrio lavorativo come opportunità notoriamente data agli occhi forestieri per cogliere gli aspetti di un luogo ormai semi invisibili allo sguardo abituato dell’autoctono.

L’inaugurazione di questo spazio – naturale prosieguo di un nostro primo scambio epistolare – poggia così sui pedali della mia bicicletta, rimessa a nuovo per infilare i lucidi giorni di marzo che precedono e anticipano la primavera. Giorni in cui è bene tuttavia non illudersi, perché

Dici marzo, è primavera e vai
di ruota fino all’isola:
trovi il sole a pelo d’acqua
e le ultime pozze di febbraio,
un signore prova il sax
e pare il suono di una nave
mentre il vento che è nell’aria
e ti frulla dalle raggiere
scrocchia foglie secche
in passi vorticosi alle tue spalle
quando a un tratto – non ci credo
la via scema, bionda
sotto il Tevere che risponde
marzo è marzo, ‘n c’è che dire
ma perché sia primavera
ancora ne ha da pedalare
e io qui scaglie di fiume
per limare i sogni verdi
alle coppiette e a tante biciclette.

Quando torni a casa, poi, nell’ora che chiami d’aria alle nevrosi dei tuoi mondi lavorativi, e il commiato solare si incastra negli alberi, fermi i pedali e catturi altri istanti beati. Come questi, in cui trovi le gabbie per il sole con cui la natura giustifica al tramonto la strana forma e l’altezza dei pini marittimi, suggerendo anche l’origine dell’idea umana di farne un surrogato col neon sotto le tegole a spiovente; idea discutibile e, appunto si diceva, umana.

A te allora, sodale di mille pugne contro lo svanire, la risposta milanese alla natura romana che cerca di mimetizzarsi nella vastità cosmopolita di uno strano luogo che muore ucciso dai barbari ogni sera, per risorgere all’alba umida sul fiume che altri dissero biondo, come biondo si dice oggi di giovane alle prime armi, almeno nel nostro pseudosettore giornalistico: ricordi, ci chiamavano biondini!