Sintesi del contributo per il XV Congresso dell’ UDI, Bologna 21-22-23 ottobre 2011
Quale relazione, quando il corpo è delle Altre? di Doriana Righini e Lucrezia Scordamaglia
Noidell’udi noiconledonne, sono le parole di questo Congresso. Ma ci chiediamo “con le donne come, quando il corpo è delle Altre”?
Il rapporto con le Altre può non essere semplice, perché inficiato dai parametri culturali e dalle convenzioni sociali entro le quali siamo cresciute. Avere o non avere un permesso di soggiorno ha un peso nella vita quotidiana e personale, così come pesano quelle categorie pratiche che ci vengono proposte e che, a volte,introiettiamo come indiscutibili. Prima fra tutte l’idea che l’immigrata sia una perenne apprendista e una donna da salvare, magari anche da se stessa.
Da parte delle Istituzioni che la dovrebbero accogliere, esiste la presunzione di conoscere con certezza bisogni e problemi di cui l’immigrata, fissata culturalmente in chiave essenzialista, sarebbe portatrice. Si chiama produzione sociale dell’inconsapevolezza: ciò che è reso inconscio perché d’intralcio all’esercizio del potere, e noi non ne siamo immuni o prive di responsabilità.
In questo senso, crediamo che uno dei primi passi dovrebbe essere quello di ritrovare la libertà di uno sguardo critico sulla costruzione sociale dei corpi e sulle politiche*, attraverso una riflessione profonda e quanto più aliena da pregiudizi, attraverso il rispetto per l’Altra, l’ascolto, il dialogo.
O forse ci rassicura pensare che se non possiamo gestire il nostro corpo siamo ancora perfettamente in grado di gestire quello delle Altre? La presa in carico delle Altre ci serve, piuttosto, a coprire le incertezze dei modelli che ci siamo prefissate?
Nel nostro immaginario collettivo ci sarebbero, dunque, da una parte donne vittime della propria cultura e dall’altra donne protagoniste della Cultura? Questa immagine non fa che creare un ulteriore e profondo solco fra un Noi, come esportatrici di democrazia e diritti (di quali godiamo concretamente poi è tutto da vedere), e le Altre.
Quanto auspichiamo è la realizzazione di una precisa volontà, che si basa una precisa idea della politica delle donne : l’idea che senza una sfera pubblica, senza un luogo del confronto e della relazione, senza un luogo dove sia possibile ascoltarsi a vicenda, ogni emancipazione si trasforma inevitabilmente in sopraffazione. Sappiamo anche che la sfera pubblica ha bisogno di un’infrastruttura relazionale, di fiducia, e che il rapporto di fiducia non nasce spontaneamente solo per il fatto di essere donne, ma nasce dalla capacità di ascolto, dalla cura dei beni collettivi, dalla memoria, dal rispetto, e da altre risorse immateriali ma vitali, senza le quali non può esistere Politica.
Bisogna assecondare quello che dovrebbe essere il desiderio di un dialogo aperto fra noi, pensato come una reale pratica di costruzione politica, propositivo a partire dalle differenze di ciascuna, che riguardino le differenti origini geografiche, religiose, i percorsi e i vissuti individuali, o le scelte di vita singole, ma soprattutto le parole con cui ogni donna si sente di definirla tale e la vuole fare sua. E’ necessario cercare e puntare su quanto ci accomuna piuttosto che su quanto ci fa sentire differenti.
Una pratica fondata sull’ascolto non è solo un anello decisivo dell’analisi, ma è soprattutto un evento politico dalla forza dirompente. Quando una donna inizia a parlare con quella che all’inizio era solo un’estranea, quando nasce una piccola solidarietà non prevista, si incrina una giuntura decisiva dei meccanismi di potere .
A Catanzaro, con l’associazione Nata di Donna, dalle nostre esperienze personali fatte di ascolto, dialogo e confronto, emerge che anche le donne native italiane scevre da pregiudizi possono covare un’incomprensione irrisolta nei confronti della “sopportazione” delle donne migranti, soprattutto di quelle di religione islamica,rispetto a situazioni familiari ritenute costrittive ed inammissibili. All’orlo dello stupore ( e dimentiche delle situazioni di vita di molte di Noi, come può accadere in Calabria) ci si chiede il perché di questa sopportazione e si vorrebbe che quella che per Noi è una contraddizione, che spesso vivono, tra l’essere donna istruita-lavoratrice-(mamma tuttofare)-socialmente e politicamente impegnata e al contempo donna che deve mantenere in pubblico un bassissimo profilo, venisse da loro stesse risolta in tutta fretta. Non una volontà di “liberarle” , quando va bene, ma un desiderio insofferente di vederle affrontare con coraggio e subito la loro “liberazione”.
Da parte delle Altre, invece, ci può essere una presa di distanza, un sottaciuto e sottile mettere le mani avanti dovuto alla intima certezza di non poter essere comprese, ed è inoltre trapelata una preoccupazione, che ci sembra di fondamentale importanza: la consapevolezza che desiderare e mettere in pratica gesti di “emancipazione” comporterebbe un allontanamento certo da parte della famiglia o della comunità di origine, vissuta con la preoccupante e poco rassicurante incognita circa il genere di accoglienza e di sostegno che, una volta “liberate”, potrebbero trovare nella “nostra” società .
Quali politiche lo Stato attua nei confronti dell’immigrazione, in particolare di quella femminile, che peraltro è sottoposta a diverse variabili specifiche del genere? Quale clima sociale e culturale di “accoglienza”, nello specifico delle nostre città e regioni? Quale forma di interesse, riflessione e sostegno da parte delle associazioni e dei movimenti delle donne? Quale solidarietà personale? Sono nodi cruciali, questi, rispetto ai quali l’UDI puo’ dire e fare molto.
Dopo aver ascoltato le nostre Amiche, dalla relazione con loro, ci chiediamo se non siano forse la riflessione, il dibattito, i movimenti e la politica delle donne ad essere indietro rispetto all’attitudine positiva delle donne migranti verso il cambiamento sociale ed alla loro effettiva presenza piena di significato politico in Italia. In questo senso vorremmo che l’UDI facesse un passo avanti.
Concludiamo (ma in realtà lasciamo più che aperto il discorso) con quanto scriveva, nel 1940, Denise Paulme in Femmes d’Afrique, considerando quanto segue come un augurio per Tutte: “Riparata un giorno all’ombra di un muro nella corte di un’abitazione, lasciavo scorrere le ore calde, sonnecchiando per metà, mentre accanto a me giovani donne pestavano il miglio a grandi colpi di pestello per preparare il pasto serale. Comparando le nostre sorti, vagamente mi congratulo con me stessa di non essere mai stata costretta a un compito del genere, che si rinnova ogni giorno. A un certo punto sorpresi una di queste due lavoratrici dire all’altra una frase del tipo: <<Questa ragazza mi affatica nel vederla, perché non ha mai lasciato la sua matita e il suo foglio: che vita può mai essere questa?>> La lezione era chiara, e non l’ho mai dimenticata.“
* Michela Fusaschi, Quando il corpo è delle Altre, Bollati Boringhieri 2011
p.s. per i tempi ridotti, anzichè leggere quanto scriveva Denise Paulme “” Ho concluso il mio intervento, al Congresso, in maniera non programmata. L’ho concluso dicendo che tutto il discorso che avevo letto sulla relazione tra donne nate in Italia e donne immigrate perdeva, purtroppo, completamente di senso in quel momento, perché era urgente e necessario- prima di qualunque altra riflessione o azione – rispondere ad un interrogativo “Quale relazione è possibile e vogliamo tra le donne nell’UDI?”. ” [continua qui]