Nuotiamo tutti, indiscriminatamente, nello stesso oceano fatto di formaldeide. Questo liquido amniotico ci culla e ci accompagna dolcemente dalla culla fino alla tomba. La nostra tomba. Perché, diciamocela tutta: la morte è l’unica cosa veramente democratica, a questo mondo. E non è una novità, questa idea, in arti come il cinema, la letteratura, la musica. Nell’arduo compito di sdoganare definitivamente il tabù della scomparsa fisica dell’essere umano è riuscita una serie televisiva, partorita da quell’autentica fabbrica di fiction (nella sua accezione migliore) che è il canale televisivo statunitense HBO, produttore, tra gli altri, dei Soprano e di True Blood. La serie televisiva oggetto di quest’articolo è quel capolavoro del grottesco chiamato di Six Feet Under (2001-2005). Sei piedi, infatti, la distanza che separa la bara dalla superficie, la morte dalla vita, la putrefazione dall’estetica ossessivo/compulsiva dei viventi. Il tabù della morte non può essere sfatato da una semplice sequenza di decessi; questi certamente accompagnano ogni puntata della serie, ma non rappresentano altro che una pittoresca cornice per molti altri nuclei tematici, ognuno di questi legato a “uomini vivi”, seppur quasi morti che camminano. Nello specifico questi dead men walking sono rappresentati da una delle figure forse più malviste, per varie motivazioni, di tutto il mondo del lavoro: the undertaker, il becchino. Per questo motivo, quale soggetto potrebbe sostenere meglio una deformazione grottesca e surreale della realtà se non una famiglia di “beccamorti” in preda a deliri esistenziali, tossicodipendenze e problemi d’identità sessuale?
La famiglia Fisher è il miglior emblema di situazioni paradossali che spesso e volentieri mutano incredibilmente le tematiche luttuose e angoscianti in fragorose e sincere risate di divertimento. Non di rado le delusioni che attanagliano questa famiglia della profonda provincia americana assomigliano alle problematiche di qualsiasi famiglia media, ovviamente accentuandone i tratti nevrastenici al limite della schizofrenia. I personaggi sono in fondo figure distorte e a tratti snaturate di prototipi umani, troppo umani. Chiunque, guardando questo telefilm, non potrà non immedesimarsi nell’irrequietezza di Nate, nella vita sdoppiata di David, nella voglia di rinnovarsi di Ruth o nelle turbe esistenziali di Claire. Dall’altro lato del cancello di casa Fisher il mondo è popolato di personaggi infidi, subdoli, contorti che la morte mette totalmente a nudo. Siamo inermi, in fondo, di fronte al nostro divenire cadaveri. Un cast degno di nota, in particolare Michael C. Hall (il futuro Dexter Morgan) e Peter Krause (consacrato dal ruolo di Nate Fisher, ma che farà la sua comparsa in prodotti di minor livello quali Dirty Sexy Money e Parenthood), per una serie, creata dal geniale Alan Ball (sceneggiatore del film di culto American Beauty), che si dimostra un’estrosa galleria dell’orrore tragicomica.
Fra sorrisi (spesso amari) e riflessioni profonde sulla natura umana, questo show entra con energia nel cuore di tenebra di un’umanità smarrita, perduta nel delirio di una società fatta di persone che vivono sperando di non morire mai. Ciliegina sulla torta è la colonna sonora, da risvegliare i morti. Arcade Fire, Radiohead, Nirvana sono solo alcuni dei gruppi le cui canzoni compaiono, spesso e volentieri, nei momenti topici dell’intera serie. Il risultato è da brivido. Non c’è molto da aggiungere a questa solida enumerazione di virtù. Altrimenti il rischio è di sfociare nell’odiato spoiler. Un’opera, dunque, da gustare dalla prima all’ultima puntata, senza patemi d’animo. Non sappiamo quando arriveranno il giorno e l’ora, certo. Dunque, nel frattempo, gustiamoci un prodotto genuino che saprà, allo stesso tempo, liberarci l’anima dal peso dell’inquietudine, e anche commuoverci.