Del romanzo di cui la ‘povna parla oggi per il venerdì del libro, la recensione suona meno incoraggiante di quanto non sia la spinta della ‘povna a consigliarlo. Perché Skippy muore di Paul Murray è senza dubbio molte cose – tra le quali un romanzo fluviale al quale un buon editor avrebbe potuto far sfrondare una duecentina di pagine, fino a farlo restare sempre impetuoso, ma torrente – ma resta soprattutto, nonostante, o anche per (come spesso capita), le sue imperfezioni, un libro che vale la pena di leggere. Per la trovata geniale dell’inizio, per come rappresenta l’adolescenza in un college irlandese (due concetti che sono slighty uguali, ma non del tutto, a come potrebbe essere questa rappresentazioni rispettivamente in America o in Gran Bretagna), per come sa guardare, su quella stessa adolescenza, lo sguardo degli adulti, per la capacità, non ultima, di rinnovare il genere school story al tempo presente, con ciò esportandolo in una cultura diversa (densamente cattolica) da quella anglo-americana.
Se un irlandese talentuoso, ma poco disciplinato, scrive un romanzo in cui mescola It e Tom Brown’s School Days (passando per Harry Potter, Stand By Me e tutta la tradizione della linea d’ombra e della letteratura di college), vale la pena di prestarli ascolto, insomma (armandosi di kindle, possibilmente, oppure leggendolo in originale: l’edizione cartacea ISBN è da perdita degli occhi), chiedendosi se, o, meglio, che cosa, abbia da dire per noi tutti, sulla nostra società contemporanea.
La valutazione complessiva della ‘povna – diciamo un “buono meno meno” – è per difetto dunque, perché il letterale precipitare degli eventi della seconda parte, accelerato e ineluttabile (e splendidamente condotto), non riesce sempre a riscattare del tutto certe lungaggini della prima parte abbondante.
Nel mezzo c’è il gruppo di pari, c’è l’adolescenza come stato ontologico, c’è il ricordo/rimpianto della medesima da parte degli adulti (che, secondo la migliore tradizione di Hook di Spielberg, o sono restati Peter Pan o sono diventati dei pirati). C’è il multiverso, e lo spiritismo del terzo millennio, che prende le penne del pavone della scienza, e dunque l’utopia inquieta del sogno, e la dialettica dolorosa tra memoria e formazione, passato e futuro. E, dunque, c’è la morte, la ribellione e l’accettazione possibile solo nell’unione aggraziata e improbabile di solitudini che si fa ambiguamente forza.
C’è tutto questo, e molto altro; in qualche modo tutto. Unito a riflessioni (un bel po’ troppo saggistiche) sulla natura umana. Che è poi quello che alla fin fine determina quell’ombra di ambiguità finale di giudizio: la certezza, inoppugnabile, che un irlandese di cultura cattolica abbia comunque bisogno di una bella sforbiciata di caratteri, prima di riuscire per davvero a eguagliare Kipling o Stephen King.
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