“Bisogna nutrire gli occhi per i sogni della notte”
(Denis Lavant in “Mauvais sang” di Leos Carax)
Scrivo mentre scorre “Sherlock Jr.” o, se volete, “La palla n.13”. Lo vedo, lo rivedo, torno indietro, fermo l’immagine. Il meccanismo del fermo immagine mi porta a fare associazioni improvvise, a riscoprire Buster Keaton in tutta la sua pulsante staticità. Stasi come condizione comica, nemesi e assieme origine del movimento. Ridere di qualcuno, non ridere con qualcuno, parafrasando il codice Keatoniano. Recitare distanti o, forse, recitare la distanza. Fare del cinema un sogno meraviglioso, una fiaba incantata dove nuove leggi sfidano la realtà. Faccia di pietra per geniale intuizione, il volto di Keaton è il segreto mai svelato del cinema muto e dei suoi eroi, è l’emozione derivante dalla sottrazione (mimica ma anche registica/ideologica) ed è, soprattutto, mediazione uomo-macchina (si pensi a “The electric house” piuttosto che a “The Cameraman” ma anche allo stesso “Sherlock Jr.”). “Sherlock Jr.” è straordinario fin dalla prima, programmatica inquadratura. Ma ci si potrebbe spingere ancora oltre affermando che l’intero film si trovi già nel singolo fotogramma che compone quella prima inquadratura, come se si trattasse di un autentico film-frame. Il film-frame, come mi piace definirlo, è il segno di un’essenzialità ascetica e compendiaria, onnicomprensiva e già definitiva. E’ come se Keaton stesso dicesse (in politico e poetico silenzio): qui ci si siete voi, pubblico pagante, e qui ci sono io, Buster Keaton. La cornice decade, ogni possibile linea di demarcazione, per quanto sottile, viene annientata. Ma facciamo un passo indietro. Cosa vediamo? A) Una sala cinematografica. B) Il luogo stesso in cui ci troviamo vedendo il film. C) Un riflesso. D) Al cinema il cinema. La sala è vuota ma in fondo, all’ultima fila di destra, è seduto Buster Keaton e sulla sedia accanto alla sua è posata una scopa. E’ tutto chiarissimo, non c’è bisogno di alcuna parola. Conosciamo già il mondo in cui il personaggio si muove e, senza alcuno sforzo, abbiamo già compreso che lavoro fa. La seconda inquadratura è ancora un progetto narrativo: siamo su un campo più stretto dove lo spazzino, con vigile attenzione, legge “How to be a detective”. L’inquadratura è narrazione stessa: a pochi secondi dall’inizio del film capiamo già il conflitto di quest’uomo. Spazzino in un cinema ha aspirazioni più grandi: sogna di diventare un detective per uscire da un mondo ordinario fin troppo noioso. E quando nella terza inquadratura arriva il direttore del cinema e vede la noncuranza del suo dipendente, lo rimette subito in riga. La frustrazione del nostro eroe, costretto a spazzare, è ancora più evidente. Si toglie il baffo finto (rientro nell’ordinario) e smette di sognare.
Il segreto del muto, di cui si è parlato in continuazione senza mai riuscire a scoprirlo o a riproporlo, risiedeva forse in una semplicità immacolata e genuina, nel riportare tutto all’unità fotogrammatica, nel creare mondi e disfarli in pochi secondi, nell’essere demiurghi di un’essenzialità scevra e immaginifica, nemica del (nostro) tempo e del (nostro) spazio. (Apro parentesi per scrivere qualche parola sul caso “The Artist” di Hazanavicious. Il vero motivo per cui nel film francese manca completamente un’idea vera di cinema muto ((o almeno una rielaborazione del suo segreto)) risiede nella totale, lusingata costruzione, nella chiara volontà che la controtendenza diventi moda. “The artist” mostra l’essere muti per far rumore. Non dice in silenzio né dice il silenzio. E se si toglie al muto la sua verità non rimane che un’operazione commerciale e per nulla anacronistica, nascosta e giustificata dalla sinistra logica dell’omaggio).
Un uomo tirerà una torta in faccia ad Eric Packer*
* “Cosmopolis” di David Cronenberg.
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