SLOVENIA: L’indipendenza slovena, un gran ballo in maschera

Creato il 08 ottobre 2012 da Eastjournal @EaSTJournal

Posted 8 ottobre 2012 in Balcani Occidentali, Slider, Slovenia, Storia with 0 Comments
di Matteo Zola

L’indipendenza slovena fu una farsa, e la guerra dei dieci giorni la scena madre di un teatro la cui regia stava a Belgrado. Che gli sloveni fossero protagonisti, comparse o marionette, non è dato capirlo con certezza. Chi vuole ancora fare l’anima candida, e credere alla messa in scena di Davide contro Golia, faccia pure. Ma lo strappo tra Lubiana e Belgrado, in quel 1991, avviene grazie a una tacita comunità d’intenti tra le due parti. E all’insaputa della Croazia. Andiamo con ordine.

Sappiamo tutti che la Slovenia non interessava a Milosevic. In quel 1991 non si poteva ancora comprendere come dietro alle sue minacciose dichiarazioni sull’integrità dei confini jugoslavi ci fosse solo l’intenzione di conservare la fetta più larga possibile di Grande Serbia. E il separatismo sloveno è utile al disegno di Milosevic. Dal canto loro i dirigenti sloveni hanno giocato con le stesse armi dei serbi: hanno costruito l’alterità dei “mitteleuropei” sloveni rispetto ai  “levantini” serbi (si parlò persino di origini norvegesi del popolo sloveno); hanno nei caveu della Ljubianska Banka i risparmi dei serbi (e dei croati), che vedevano nelle banche del nord un porto sicuro per il loro denaro; hanno ripulito le loro facce dalle tracce del passato regime, di cui furono nomenklatura. Quella balcanica è fin dal suo prologo sloveno una guerra di maschere e finanza.

Certo, nei circoli internazionali era diffusa l’idea che in fondo la Jugoslavia non fosse altro che una grande Serbia, un Paese da preservare nella sua integrità anche a costo di appoggiare uno come Slobodan Milosevic. Accanto a questo elemento ideologico c’erano interessi geopolitici che spingevano le cancellerie occidentali per la conservazione della Jugoslavia: corridoio fra l’Europa comunitaria e la Grecia, strategica nel suo ruolo di cerniera tra est e ovest, si temeva che una sua disgregazione (in quel momento stava crollando anche l’Urss) avesse effetti distruttivi sul resto del continente. Un’indipendenza slovena (o, peggio, croata) erano da evitarsi.

La leadership slovena era allora rappresentata da Milan Kucan, presidente della repubblica federativa slovena dopo le elezioni libere del 1990 cui seguì il referendum per l’indipendenza, cui l’88% degli sloveni votò “sì”. Quando, il 21 giugno 1991, il segretario di Stato americano, James Baker, in visita a Belgrado dichiarò che gli Stati Uniti “non avrebbero incoraggiato né premiato la secessione” era evidente a Kucan che il suo paese si trovava solo. Anzi, Kucan comprese come il messaggio di Baker fosse un invito, forse involontario, a opporsi all’autodeterminazione slovena e croata. Poco dopo la visita a Belgrado di Baker, l’allora presidente federale della Jugoslavia, Ante Markovic, dichiarò in Parlamento che “l’Armata popolare (l’esercito regolare, ndr) era pronta a prendere le misure adatte” in caso di secessione. La tensione, evidentemente, era altissima. Il 25 giugno la Slovenia dichiarò la sua indipendenza. Ma la Slovenia non fu sola, al suo fianco, muta e invisibile, c’era la Serbia.

Quel giorno vennero invitati oltre mille giornalisti internazionali, quello che doveva essere l’atto eroico di Davide contro Golia andò in scena sotto centinaia di telecamere. Doveva sembrare un battesimo gioioso, una primavera del popolo. E lo fu, per il gregge dei giornalisti e per le rispettive opinioni pubbliche. E quando gli sloveni occupano i posti di frontiera (anche con l’Italia), le telecamere sono sempre lì: l’Armata popolare fa solo qualche scaramuccia, sa bene che ogni colpo sparato sarebbe andato in mondovisione. Conquistata la solidarietà internazionale, il primo Stato sorto in Europa dopo il 1946 cerca la legittimazione definitiva. Insomma, ci vanno dei morti, una guerra.

Come ottenerla? L’Armata popolare aveva mezzi corazzati, aerei, blindati. Il 28 giugno un attacco aereo jugoslavo colpì l’aeroporto di Brnik, la televisione e le barricate stradali. Molte però furono le diserzioni dei soldati sloveni dell’Armata popolare che si unirono ai connazionali nella lotta. Si susseguirono gli allarmi aerei per attacchi che non vennero mai, si diede la caccia ai cecchini sui tetti, che non c’erano. Si abbattè un elicottero, il 28 giugno, che riforniva di viveri la caserma dell’Armata popolare jugoslava in Lubiana: “trasportava armi”, fu la motivazione. Lo stesso giorno, a Nova Gorica, presso la “casa rossa” dove erano di stanza i soldati federali, scoppiarono violenti scontri che videro la morte di quattro soldati jugoslavi. Una cosa inconcepibile, fino aad allora, che jugoslavi potessero sparare su altri jugoslavi. Quello della “casa rossa” fu il simbolico avvio dell’identificazione dell’Armata popolare con la causa serba.

La risposta di Belgrado venne dal generale Veljko Kadijevic: “il sangue arriverà alle ginocchia”. Ma non era vero. Il 30 giugno venne l’ordine da Milosevic di non invadere la Slovenia. I generali dell’esercito jugoslavo furono costretti a ripiegare sulla Croazia, che aveva dichiarato l’indipendenza in concomitanza con la Slovenia. Lo stupore generale fu grande. La tesi di un accordo sottobanco tra serbi e sloveni trova una conferma storica nell’incontro segreto tra Milosevic e Kucan nel gennaio 1991 (documentato nel noto “The death of Yugoslavia” prodotto dalla Bbc e nelle memorie di Zimmermann, ex-ambasciatore USA), dove il primo garantisce al secondo che la Serbia non muoverà un dito per tenere dentro la Slovenia. In ogni caso, il risultato è ottenuto: Davide aveva vinto contro Golia.

Ma a tutti sfuggì che la trappola era scattata: Tudjman, che seppe solo seguire la Slovenia  nella dichiarazione di indipendenza ma non organizzare la difesa, si trovò con i separatisti serbi (da mesi armati da Belgrado) che sparavano sui croati disarmati. La guerra, quella vera, quella per la Grande Serbia, quella voluta e preordinata da mesi se non anni, quella vagheggiata dall’Accademia delle Scienze di Belgrado, si poteva finalmente combattere.

Grazie alla Slovenia (che fece, forse inconsapevolmente, il gioco serbo) la Jugoslavia collassò. Finalmente anche l’ultimo residuo di Stato federale, rappresentanto dal primo ministro federale Ante Markovic, si dissolse. La strada per Milosevic era spianata. Un decennio di sangue era inaugurato.

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