Tra gli stigmatizzati d’Italia, tra Padre Pio e San Francesco, mancava sino ad ottobre scorso un Mario cui trasmettere il mistero.
Sappiamo chi gli abbia impresso, finalmente, le stimmate di santità e ortodossia, una vera e propria certificazione della sua fonte di ispirazione, ma anche il punto critico su cui scatenare la morsa di dolore in caso di defezione; qualche piccola scossa sulle piaghe, intanto dai colli romani, deve essere già arrivata; ma più che sulla fedeltà, certamente fuori discussione, del personaggio, qualche dubbio evidentemente sulla effettiva capacità comincia ad affiorare.
Più che stimmate però, mi si perdoni la trivialità, mi paiono i marchi a fuoco del bovaro.
Comunque sia, su quell’odore di carne bruciata, il carrozzone mediatico ha costruito per mesi l’aura salvifica del nostro Messia.
Non che il Nostro si sia del tutto fidato degli scrivani, giacché di suo pugno, più volte, questa estate ha vergato le pergamene del Corriere con le sue prescrizioni.
Non sono mancati nemmeno i flagelli biblici, a colpi di spread e tassi di interesse, inviati dal Giudice Vendicatore d’Oltreatlantico, propedeutici alla mansuetudine dei profeti minori concorrenti e alla benevolenza del popolo verso il proprio futuro fustigatore.
Con un “deus ex machina” così autorevole, corifei così puntuali nell’assecondare il ritmo della recitazione, il gran cerimoniere “Partenopeo” di consumata esperienza a dettare i tempi e i due gorilla Ang(h)ela e Nikolàs a scaraventarlo praticamente sul palcoscenico, il Nostro non ha avuto nessuna esitazione nel definire i due pilastri su cui poggiare la propria avventura istituzionale:
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l’assoluta, supina fedeltà agli Stati Uniti, suggellata dalla nomina a ministro di due suoi espliciti araldi e dal generoso obolo dei caccia F35, senza nemmeno la parvenza di uno scambio quantomeno simbolico di beni, in uso tra le gerarchie feudali e ordaliche
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l’assoluta e cieca fiducia nelle virtù salvifiche e di crescita del mercato globale liberalizzato, in specie di quello euro-americano, suggellata dalla nomina di se stesso a Ministro dell’Economia
In questo scenario così impegnativo, le pontificazioni della serie “Il governo tecnico è il frutto di una lunga e coerente azione politica che ha costruito con pazienza le condizioni per superare il governo Berlusconi. Non sarebbe stata possibile la svolta che oggi suscita nuove speranze nel paese se l’opposizione non avesse lavorato a un governo di responsabilità nazionale. Ed è stato merito del PD aver operato per una collaborazione con il Terzo polo offrendo a una maggioranza parlamentare fragile ma arroccata la possibilità e la garanzia di una continuazione della legislatura in un quadro di comune assunzione di responsabilità, oltre il governo Berlusconi. Sono state questa azione politica intelligente e questa scelta responsabile che hanno creato le condizioni per una erosione della maggioranza e, alla fine, per un cambiamento politico così profondo come quello che si è determinato”, solennemente e convintamente vergate da Massimo D’Alema, suscitano benevola commiserazione.
Più realistico Bersani quando fa notare ai piccoli imprenditori di Rete Impresa l’errore di essersi rivolti “a lui, bigliettaio, anziché al conducente, Monti, per far cambiare direzione al treno dei provvedimenti”.
Per tornare al nostro Mario Monti, la definizione di quei due pilastri sembrano intanto assegnargli un ruolo rilevante nello scenario europeo; la solidità solo apparente dei pilastri non basta, però, a garantire la sicurezza della casa; la loro pesantezza può contribuire, invece, a far sprofondare costruzione ed inquilini. Occorre tra l’altro costruire pareti ed impianti idonei.
Su questo, però, più che intelligenza, il Professore sta rivelando consumata furbizia acquisita negli anni da Commissario Europeo con la sua attività tra gli infiniti Comitati Europei, sedi elettive delle contrattazioni lobbistiche spacciate per politiche comunitarie.
Il gioco è ormai collaudato; si parte con proclami rivoluzionari contro i poteri forti, la stampa funge da gran cassa pressoché all’unisono, si sondano le reazioni, partono provvedimenti ridimensionati rispetto ai proclami e con bersagli civetta, iniziano nel retrobottega le trattative più serie.
Un gioco che non rivela una pianificazione complottistica degli eventi, quanto un modo pragmatico di gestire e far emergere i conflitti, cercando di orientarli al meglio in una situazione caotica e complessa e di garantirne il patrocinio ai soliti noti, riparando in corso d’opera alle frequenti cantonate a smentire i curricula del “pied a terre”.
È accaduto con i provvedimenti sulle privatizzazioni e liberalizzazioni; si è ripetuto con qualche inghippo maggiore su quello degli ammortizzatori sociali e del mercato del lavoro.
Uno schema e una diversione resi possibili dal salasso fiscale, pensionistico e tariffario e dalle garanzie offerte sulle prossime dismissioni.
Che siano questi ultimi i reali terreni da arare, senza alcuna ambizione di orientare le scelte nei settori economici, lo si è visto e, soprattutto, lo si vedrà nei mesi a venire dal certosino drenaggio dei redditi legati alle case date in affitto e a quelle di prima abitazione, piuttosto che dai patrimoni immobilizzati; dal ripristino dei balzelli da prima repubblica; dal taglio drastico delle prestazioni previdenziali ed assistenziali. Su questo l’unanimità regna pressoché assoluta.
Dagli F35 americani agli F24 dell’Agenzia Entrate la tenuta politica appare solida.
Quando si tratterà di intaccare, se e come intenderà farlo, il sottobosco assistenziale e parassitario, solo allora gli scossoni potranno agitare i sonni dell’equipaggio; non a caso Monti ha glissato, al momento, sull’applicazione dell’articolo 18 al pubblico impiego.
Su questo, però, probabilmente, saranno ben altre forze, piuttosto che il professore, a scandire tempi e modalità.
Ma più che entrare nel merito delle politiche, Mario Monti e soprattutto il suo mentore mirano a ridefinire i rituali e il ruolo dei protagonisti dei conflitti e delle negoziazioni e a riconsegnare ai partiti, sotto nuove spoglie, il ruolo di mediazione e di raccolta degli interessi.
La modalità di presentazione per disegno di legge del documento sul mercato del lavoro è una prova evidente di questa ambizione.
I tempi della concertazione all’aperto volgono al tramonto e con esso il ruolo di mediazione diretta delle associazioni coinvolte.
L’ossequio ostentato verso il Parlamento significa solo questo; tracciare le linee intorno alle quali distruggere e ricostruire partiti e schieramenti sia nella maggioranza governativa che nella opposizione in forme più o meno feudalizzate.
Solo allora sarà possibile passare in maniera più drastica dalle classiche e semplici politiche dei carichi fiscali e di taglio della redistribuzione del reddito a quelle più dirette di riorganizzazione della spesa, degli apparati e dei servizi pubblici.
L’attuale discussione ed enfasi sullo “spending review”, sull’evasione fiscale, sull’assistenzialismo sono ancora una semplice melina, pur con le nefandezze in corso più volte evidenziate.
Pur con le attenuanti legate ai ritmi stretti in cui stanno operando e ai tempi lunghi, circa due anni come sottolineato dagli studiosi più seri, necessari ad impostare un lavoro di riorganizzazione della spesa e dell’amministrazione pubblica, non va dimenticato che al Governo siedono soloni che hanno costruito le carriere per decenni studiando quei problemi ma che, al momento, stando alle indiscrezioni, paiono trarre le maggiori ispirazioni dai suggerimenti diretti dei cittadini sui portali governativi.
Manca solo il concorso a premi.
Trattandosi di una fase preliminare e fondativa, il Governo può ancora permettersi di inquadrare i provvedimenti sotto l’aura della moralità fiscale, della perequazione dei trattamenti assistenziali e dei diritti, della lotta agli sprechi e ai parassitismi, antichi cavalli di battaglia di sinistra e cattolici sociali e su questo conservare sufficienti margini di consenso.
In questo contesto vanno inseriti i provvedimenti contenuti nel documento de “La riforma del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita” su cui mi soffermerò.
Si tratta appunto di un documento, suscettibile quindi di modifiche e stravolgimenti.
Pur con le puntuali retromarce e precisazioni, già il titolo è indicativo nella sua “prospettiva di crescita”.
La modifica dell’articolo 18, l’eliminazione degli ammortizzatori sociali di lunga durata, l’estensione di quelli a dodici mesi e la creazione dell’ASPI, l’incentivazione dei contratti a tempo indeterminato sarebbero la condizione propedeutica agli investimenti industriali, soprattutto esteri.
È la visione messianica, a mio parere l’illusione, su cui Monti fonda le proprie speranze di successo, le quali si risolvono nelle virtù intrinseche di un mercato privo di barriere e di vincoli.
Intanto essa poggia su una rappresentazione decisamente ballerina: quella di un paese descritto secondo convenienza a volte ricco di capitali liquidi disponibili, quando si tratta di imposizione fiscale, di offerta di opportunità di investimenti legati alle privatizzazioni delle aziende di servizio; quella di un paese dagli scarsi capitali, per lo più immobilizzati nei patrimoni immobiliari quando ci si deve appellare agli investitori esteri.
La realtà, a mio parere, tende verso la seconda, con i patrimoni mobiliari dei ceti medi intaccati dai crolli di borsa e concentrati negli istituti bancari. L’enfasi conseguente posta sulla libertà di movimento degli investimenti esteri sottende una visione da colonizzati, ampiamente contestata dai paesi più rispettosi della propria sovranità e delle proprie possibilità di sviluppo duraturo; ad esclusione infatti di paesi colonizzati e poveri come l’Estonia, dove raggiunge il 25%, il massimo livello dei flussi esteri annui dei paesi europei, quindi a medio sviluppo, raggiunge tuttalpiù il 5%; del tutto insufficienti ad innescare lo sviluppo, tanto più in condizioni di assenza di vincoli e con ostacoli all’attività imprenditoriale ben più ostici della attuale condizione del mercato del lavoro.
La regolazione del mercato del lavoro, anche se non determinante, ha, comunque, un suo ruolo nell’orientare lo sviluppo economico; ma proprio su questo aspetto pragmatico Monti, Fornero e Passera continuano elegantemente a glissare.
Il professor Ichino, comunque schierato nel sostegno a Monti, in un suo studio serio ha quantificato in 500.000 i posti a qualificazione medio-alta vacanti per mancanza di manodopera idonea, in un trend in cui il crollo drammatico di occupazione qualificata è parzialmente oscurato dall’incremento di posti a minor qualificazione occupati prevalentemente da stranieri; questo dato è ulteriormente aggravato dall’anzianità di gran parte del personale qualificato e dalla difficoltà di formazione e trasmissione del sapere legata alla frammentazione produttiva. Un approccio serio richiederebbe una raccolta di dati, un programma di formazione professionale specie del personale in mobilità, una incentivazione adeguata a spostare le attività dalle zone sature, un programma di formazione di imprenditoria con un ruolo rigoroso da assegnare a università, poli tecnologici, agenzie del lavoro, scuole professionali e quant’altro. La stessa riforma delle pensioni avrebbe potuto prevedere forme di pensionamento part-time in quei settori di manodopera professionalizzata nelle industrie e nei servizi, a beneficio della casse pubbliche, delle capacità riproduttive delle attività e della formazione del nuovo personale attraverso la trasmissione di sapere professionale.
Si è messo il carro davanti ai buoi, sopprimendo giustamente, salvo probabili proroghe, lo scandalo delle casse integrazioni infinite, vere e proprie condizioni di degrado della persona, di spreco assistenzialistico e di distorsione del mercato del lavoro, compreso quello illegale a favore di integrazioni di reddito ridotte ad un anno ma generalizzate, senza pianificare il resto.
Il risultato sarà una condizione prossima altamente drammatica in quelle zone del paese dove sono spariti interi settori maturi e precari (calzaturiero nel Salento, tessile in Campania e Sicilia, settori vari in Sardegna, ect) e dove da anni il personale è in cassa integrazione; scarsamente gestita nelle zone dove è in corso la riconversione produttiva in un quadro di ridimensionamento. Il tutto ricondotto nel solito teatrino di lotta tra i fautori delle virtù intrinseche del mercato e i profeti del crollo generalizzato e onnipresente, buono a riprodurre i riti politici e le coreografie ultraquarantennali.
Su questo, ancora Ichino rivela che, a tutt’oggi, circa l’80% dei licenziati riesce, nelle realtà industriali e di servizio, a trovare lavoro entro un anno.
Stessa cortina fumogena sulla riforma dei contratti di lavoro. Si è partiti con la demagogia dell’abolizione totale dei contratti a termine, si è passati per una riduzione consistente delle tipologie di contratto, si è giunti allo scorretto mantenimento delle tipologie e alla contestuale giusta incentivazione del contratto a tempo indeterminato e di formazione ed apprendistato; solo che la cosiddetta incentivazione si è ridotta ad un misero 1,40% oltre agli impedimenti, facilmente aggirabili, a rinnovare i contratti determinati oltre i trentasei mesi; in sostanza, una ulteriore tassazione sulle imprese, volta a finanziare l’ASPI, mascherata da incentivo.
L’integrazione al reddito e i contratti individuali di lavoro sono di gran lunga le due parti più importanti di quel documento le quali avrebbero meritato ben altra considerazione e ben altro piglio da parte sindacale; hanno registrato, invece, la piena unanimità.
Tutta l’attenzione e la polemica, invece, si è concentrata sull’articolo 18 e su quel particolare aspetto della discriminazione possibile legata al licenziamento per motivi economici, importante dal punto di vista simbolico e della tutela individuale del dipendente, ma secondaria, quantomeno nei numeri, rispetto alle conseguenze che quell’applicazione arrecherebbe alle dinamiche di gestione delle aziende e dei gruppi al loro interno.
Il licenziamento individuale per motivi economici è, di fatto:
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un “lusso” riservato alle aziende medio-grandi, vista l’entità delle sanzioni e delle mensilità potenzialmente a carico del datore di lavoro;
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uno strumento che potrebbe ridimensionare il ruolo delle procedure di licenziamento collettivo, una delle poche garanzie serie di governo sindacale delle situazioni di crisi;
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senza una casistica precisa delle motivazioni, non fa che incrementare ulteriormente quel potere discrezionale dei giudici giudicato dai più la causa prima di incertezza e di abusi di tipo discriminatorio e parassitario.
Siamo agli antipodi rispetto alle finalità stesse dichiarate dalla quasi totalità delle parti in causa.
In realtà sono aspetti fondamentali in punta di diritto, ma ancora abbastanza marginali nella casistica reale dei rapporti di lavoro.
Il punto cruciale legato a questa modifica è un altro, totalmente disconosciuto ufficialmente ma che probabilmente è ben presente a chi dovrà gestire i grandi processi di riorganizzazione nelle grandi aziende, specie quelle dei servizi.
In queste ultime, il fattore umano e la gestione delle strategie e delle dinamiche dei gruppi, dei loro conflitti, delle rivalità e delle loro alleanze e cooperazioni assumono un ruolo fondamentale per il conseguimento degli obbiettivi e la riproduzione della struttura.
Nelle aziende dove il modello organizzativo aderisce in maniera adeguata alla tecnologia adottata e garantisce un equilibrio nella gerarchia tra livello strategico, area commerciale e di prodotto e quella della gestione delle risorse umane diventa secondaria la regolazione normativa dei conflitti.
In quelle dove i modelli faticano ad adeguarsi, penalizzati magari anche da una sottocapitalizzazione, l’affanno del conseguimento dei risultati su base trimestrale impedisce di fatto una programmazione di lungo periodo, una riorganizzazione radicale dei processi e una assegnazione degli obbiettivi su basi analitiche più attendibili, un riconoscimento serio delle competenze, le modifiche all’articolo 18 rappresentano lo strumento perfetto per procrastinare le distorsioni e indebolire la dialettica necessaria a migliorare i processi.
Le Poste, da questo punto di vista, rappresentano un vero e proprio paradigma.
A quindici anni di distanza dalla privatizzazione, le procedure sono ben lungi dall’essere adeguate alla logica ed alle potenzialità della rete informatica, gli investimenti languono per la tendenza dell’azionista pubblico ad assorbire gli utili nel calderone del deficit pubblico, il conseguimento degli obbiettivi commerciali immediati tendono sempre più a scontrarsi con l’incapacità di analisi dei bacini e delle risorse umane da valorizzare e con le strozzature organizzative. In questo contesto le dinamiche di autoconservazione dei gruppi e di riproduzione burocratica delle routines tendono a prevalere rispetto alle potenzialità di sviluppo.
Le vittime designate, i capri espiatori di queste dinamiche rischiano di essere proprio quelle figure che in qualche maniera, forzando le situazioni, hanno spinto l’Azienda a tentare di adeguarsi. In passato sono sopravvissuti rimettendoci magari la carriera a favore degli elementi più ossequiosi; oggi potrebbero diventare le vittime sacrificali in favore dello statu quo e dello scadimento ulteriore di buona parte dei gruppi dirigenti da strateghi e manager a piazzisti commerciali.
Un’analisi qualitativa sarebbe senz’altro illuminante.
Non è un caso che le maggiori reazioni verso la possibilità di riassunzione anche per questa categoria di licenziamenti, prospettata come prevedibile dal Governo, si siano registrate nell’Associazione Bancaria e nelle aziende di servizi.
Leggete con un po’ di ironia il testo di questo link: http://www.keinpfusch.net/2012/03/de-germania-quattro-anni-dopo.html ; molte dinamiche interne alle aziende e alla società italiana saranno più chiare.
Per concludere, il giudizio da esprimere su questo documento, tra l’altro modificato e convertito, mentre scrivo, in disegno di legge non può prescindere dal contesto.
Ma quello che si vorrebbe spacciare per un processo di perequazione e di stabilizzazione potrebbe registrare qualche successo se fosse in atto un processo di riconversione piuttosto che di prevalente distruzione della struttura economica. In caso contrario otterrebbe il duplice risultato di un aggravio di costi delle aziende medio-piccole e di un degrado sociale drammatico con il rischio di conflitti sterili e autodistruttivi. La stessa stabilità del rapporto di lavoro più che da una regolazione normativa, dipende dalle possibilità di programmazione di lungo periodo delle aziende, cosa tutt’altro che agevole con le attuali strutture finanziarie e azionarie, con l’attuale esposizione al mercato in settori maturi se non decotti.
L’idillio tra Monti e i suoi sponsor nazionali mostra infatti in proposito già qualche crepa.
La collocazione internazionale di stretta subordinazione atlantica, la spinta codina verso una ulteriore liberalizzazione del mercato finanziario e produttivo euro-americano fanno a pugni con le esigenze di autonomia politica e indipendenza economica in grado di garantire maggiore capacità di interlocuzione con i poli alternativi. Il recente viaggio in Asia ha chiarito l’indisponibilità di Cina, India, Giappone ed altri ad assumere lo stesso ruolo di finanziatori a buon mercato assunto dagli sceicchi ai tempi dello shock petrolifero degli anni ’70. Se devono investire in Italia, lo faranno per acquisire aziende, tecnologie e logistica piuttosto che debito pubblico e per ottenere un riconoscimento politico paritario, cosa certo poco gradita allo sponsor americano.
Un Monti che smentisce Monti. Un vero e proprio “cul de sac” il cui stringersi può facilmente trasformare il tentativo di composizione di un blocco sociale in una palude di conflitti atomizzati.
L’agenda politica dei prossimi mesi, quella internazionale ancor più di quella italica, gioca ancora a favore del tentativo politico di Monti; i soprassalti finanziari sui titoli pubblici sembrano più che altro degli avvertimenti e dei sussulti di settori da tenere a bada almeno per quest’anno.
In mancanza di un movimento sovranista capace di indirizzare le energie, già si intravedono le caratteristiche dei futuri conflitti, del degrado e delle divisioni distruttive che attraverseranno il paese con la parodia surreale di destra e sinistra. Una sorta di “si salvi chi può” con i settori più retrivi, parassitari e complementari ancora più legati al carro dominante; a quel punto lo stesso Monti potrebbe rivelarsi inadeguato.
Le incertezze sono tante: dal contesto internazionale del tutto indipendente dagli intendimenti nostrani, alla qualità di una classe dirigente raffazzonata, alla crisi produttiva molto più ostica da gestire di quella finanziaria; ma dalla scomposizione politica in corso si potranno liberare forze a noi più congeniali. Certamente non sarà un processo spontaneo.