Regista: Justin Kurzel
Attori: Lucas Pittaway, Daniel Henshall, Louise Harris
Paese: Australia
Con “Martha Marcy May Marlene” sono due gli esordi alla regia nel 2011 che raccontano un tema assai ostico e difficile da affrontare come quello dei culti e delle relative dinamiche. Laddove la pellicola di Durkin si concentra maggiormente sul carattere fittizio splendidamente interpretato dalla Olsen, però, l'australiano Kurzel sceglie di raccontare con la sua prima pellicola la storia romanzata, seppur assai fedele, di John Bunting, il peggior serial killer che l'Australia abbia mai conosciuto. Si è reso mandante ed esecutore di 11 omicidi, per i quali attualmente sta scontando altrettanti ergastoli senza possibilità d'appello. Come perno del racconto, sulla base del quale sviscerare poi la ricostruzione di quanto accaduto, il regista australiano sceglie il rapporto tra Bunting (Daniel Henshall) e James Vlassakis (Lucas Pittaway), figlio di Elizabeth (Louise Harris), compagna e moglie dello stesso Bunting. Si sofferma, nello specifico, sulla pressione emozionale esercitata dal serial killer sul giovane James, che vede in lui la figura paterna che non ha mai avuto, in grado di occuparsi della propria famiglia e difenderla quando necessario.
Concentrarsi su questo aspetto si rivela in assoluto la miglior scelta possibile, perché capace di svelare con facilità la struttura portante di movimenti simili, costruita su debolezze che aspettano solo di essere plasmate e guidate attraverso la promessa di uno scopo; uno scopo che in realtà tale non è, essendo solo una giustificazione come un'altra, utile a mascherare le pulsioni omicide del guru di turno, per niente convincenti ma assolutamente credibili agli occhi di gente quasi del tutto vuota, perché svuotata in precedenza o perché mai riempita. Una struttura, quindi, quasi inesistente se osservata senza immedesimazione, di fatto tremolante, appena capace di stare in piedi e appena suscettibile di essere definita tale. Al tempo stesso, però, la più solida sulla quale la gente di cui si sta scrivendo abbia mai potuto contare. È il nulla plasmato col nulla descritto e raccontato da Durkin. La vicinanza tra le due pellicole non è infatti giustificata unicamente dal tema affrontato, ma anche e soprattutto dal modo in cui viene affrontato. Entrambi i registi puntano al far arrivare allo spettatore un nulla permeato dalle sensazioni di coloro i quali in quel nulla vedono tutto (Martha Marcy May Marlene), o di coloro i quali in quel nulla vedono l'unica strada possibile, percorsa anche solo per inerzia (Jamie Vlassakis).
Se è vero, tuttavia, che per molti versi quello di Kurzel è simile all'esordio di Durkin, è vero anche che se ne allontana per altri. Benché il risultato sia al termine del tutto simile, Durkin punta su soluzioni tecnico-estetiche più ammalianti, alle quali ci si lascia andare quasi inconsapevolmente - le stesse che ammaliano la protagonista. Kurzel, invece, più che pennellare una simile realtà, ne delinea il volto attraverso tratti assai marcati; non si preoccupa di ritrarne l'aspetto più affascinante (per le “vittime” del carisma della personalità portante), ma guarda in faccia il nulla e ne restituisce lo sguardo più glaciale. Il suo racconto appare non a caso spesso asettico, una sorta di successione di eventi senza anima alcuna, in cui parentesi di brutalità inquadrata anche attraverso primissimi piani sembra così normale da provocare solo un normale ribrezzo e non una reale risposta emotiva alla violenza, né più in generale al quadro delineato dal regista. Eppure fin da subito c'è qualcosa, la si avverte chiaramente; una sensazione strisciante e assolutamente non di primo piano alla quale non si dà troppa importanza, ma che non perde tuttavia mai il passo, non resta mai indietro, accompagna al contrario ogni singola sequenza, fino poi ad insinuarsi sotto pelle e a creare un indefinito disagio. Da un punto non individuabile in poi si inizia a far fatica a guardare “Snowtown”, ci si accorge che i respiri si fanno più pesanti e che mandar giù le sequenze diviene sempre più difficile. È l'atmosfera nichilista e distruttiva mesa in scena da Kurzel, che la costruisce con una calma inesorabile ed uno stile quasi documentaristico, servendosi però di fondamentali parentesi in cui ora un ralenti ora un fast-forward appena accennato conferiscono a sequenze in apparenza prive di significato la capacità di far vibrare quel disagio precedentemente insinuato con assoluta consapevolezza sotto la pelle dello spettatore.
Il nulla inquadrato e descritto dall'esordiente australiano non è però solo quello più intimo dei singoli protagonisti. Pur concentrandosi e stringendo spesso sui volti, la telecamera si concede saltuariamente brevi inquadrature in sequenza di alcune zone del paese, deserte e illuminate da luci spente e glaciali quanto il racconto. Il vuoto diviene così, di colpo, il vuoto di un intero paese, che pur descritto in ambienti più ampi e aperti diviene paradossalmente ancor più soffocante, perché più presente e tale da poter opprimere intere porzioni di spazio. Sembra che non ci sia altro, sembra impossibile muoversi in altre direzioni. Ci sono solo angoscia e disagio, tanto che si inizia a sperare che il film finisca, sì da poter uscire da un'atmosfera ormai del tutto sgradevole. Se però lo spettatore riesce ovviamente ad uscirne, benché resti addosso per un bel po' anche dopo la visione, James no. Lui respira quell'aria per tutta la vita, non può evitarla e non può farne a meno, schiacciato dai ricatti indiretti di Bounting – meravigliosamente interpretato da Henshall - che da una parte si rende indispensabile per la famiglia occupandosi del fratellino, e dall'altra lo attira nel suo vortice di devastazione fino a costringerlo a farne attivamente parte. Non potendo quindi prendere posizione in maniera netta James rimane nel mezzo, nel nulla. Va avanti per quell'inerzia di cui si scriveva in precedenza, restituendo al termine un ritratto capace insieme al resto di bloccare lo spettatore in una visione sfiancante e dalla quale non si vede l'ora di prendere le distanze.
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