L’Italia è il paese più vecchio del mondo, solo il Giappone è in grado di insidiare il nostro primato.
Il 20% della popolazione italiana è composto da ultra sessantacinquenni e il tasso di natalità è bassissimo, appena l’8,18 ogni mille abitanti, e in costante decrescita.
Tra i residenti stranieri, circa quattro milioni nel 2009, (il 5,7% della popolazione totale) il tasso di natalità è invece altissimo e in costante crescita. Su ogni cento bambini che nascono in Italia ben quattordici sono di altra nazionalità.
Seguitando di questo passo, come risulta da una tendenza ormai consolidata, nel nostro Paese avremo sempre meno Italiani e sempre più vecchi e sempre più stranieri e sempre più giovani.
C’è chi sostiene che il costante aumento e l’alto tasso di natalità di questi stranieri, compensando la nostra decrescita demografica, rappresenti la soluzione del problema. Può darsi, ma dobbiamo chiederci quale prezzo siamo disposti a pagare per evitare di vivere in un paese che, in prospettiva, pare destinato ad esser popolato da una maggioranza di ottuagenari.
Certamente questi stranieri rappresentano una indispensabile forza lavoro, ma non dobbiamo dimenticare che tra di loro vi è un altissimo tasso di criminalità: un detenuto su tre nelle nostre carceri, benché siano soltanto il 5,7% della popolazione totale, è di nazionalità non italiana.
Un altro problema è rappresentato dal fatto che molti di questi ospiti provengono da paesi di tradizione culturale e religiosa assai difforme dalla nostra e, molto spesso, sono restii ad adattarsi ai nostri usi e ai nostri costumi, creando situazioni di disagio e di conflitto sociale.
Nonostante ciò, vi è chi propone, considerando il fenomeno ormai inarrestabile, di concedere diritto di voto e anche cittadinanza a quanti risiedano e lavorino da un certo tempo nel nostro Paese, facendoli diventare, a tutti gli effetti, Italiani.
Da un punto di vista strettamente demografico il discorso non fa una grinza, ma se pensiamo che in tal modo la percentuale di cittadini di altra origine etnica e culturale aumenterà vertiginosamente, dobbiamo chiederci che ne sarà della nostra identità nazionale.
Per qualcuno, nella prospettiva di una società multietnica e multiculturale, ciò può non rappresentare un problema ma per chi pensa che tale identità, frutto di millenni di storia e di civiltà, rappresenti un valore, una ricchezza che vanno preservati, il problema c’è…e come.
Beninteso, in questo discorso non vi è neanche una venatura di carattere razzista, tutti i popoli e tutte le culture godono di pari dignità ed è appunto per questo che sarebbe il caso di evitare il rischio che sia proprio la nostra ad essere sacrificata o addirittura condannata a confondersi con altre in un guazzabuglio nel quale, a rimetterci e a perdere la propria identità, saranno tutti.
Sarà un punto di vista discutibile, che molti riterranno non al passo coi tempi, ma io credo che un popolo, per dirsi nazione, debba essere accomunato da cinque fattori indispensabili: l’Ethnos (l’etnia), il Logos (la lingua), il Topos (la terra), l’Ethos (i costumi e le regole), e l’Epos (l’epopea).
Accogliamo dunque con rispetto chi viene nel nostro Paese per scampare alla persecuzione e all’indigenza, chi viene per dedicarsi a un onesto lavoro, nell’osservanza delle nostre leggi e delle nostre tradizioni, concediamogli pure, nel caso, la cittadinanza ma non in modo indiscriminato, con moderazione, affinché, come abbiamo fatto noi Italiani in altri paesi, possano integrarsi nel nostro tessuto sociale e culturale e arricchirlo con il loro peculiare contributo, senza che noi Italiani, magari un po’ più vecchi e meno numerosi, si debba rinunciare a quell’inestimabile patrimonio che i nostri Padri ci hanno lasciato: l’identità nazionale.
Federico Bernardini
Illustrazione: “United Colors of Benetton”, fonte http://evviva.e-monsite.com/pages/content/mass-media/pubblicita/pubblicia-benetton.html