A Somewhere manca però la forza dello scontro con la realtà e lo spirito della redenzione. Il racconto descrittivo cresce, non c’è che dire, nel vortice del nulla televisivo (berlusconiano?), nella ruota di infinite passioni femminili collezionate dal protagonista, ma senza un sentimento visivo finale. Ci saremmo sentiti infatti meno gabbati se il presidente della giuria alla mostra di Venezia, Quentin Tarantino, ex compagno della Coppola, l’avesse premiato per il valore politico. Ma così non è stato. Il protagonista scappa, dal suo vuoto (che ricorda la solitudine del Marcello de La dolce vita di Fellini nel suo rapporto con la bambina innocente e ignara dei mostri del tempo) verso un altro vuoto che lascia libera interpretazione allo spettatore. Racconta la noia, ma senza un finale degno di una visione tragica. I romani direbbero “nun gna fa’”.
Claudio Siniscalchi su L’Occidentale ne ha parlato così: «L’originalità di “Somewhere” segnala punti estetici (e soprattutto etici) di notevole interesse: Sofia Coppola […] rappresenta lo specchio culturale del post-femminismo, è la più lucida interprete del processo di desocializzazione che ha investito l’Occidente a partire dagli anni Sessanta del XX secolo». Smettiamola con queste masturbazioni! E’ un film troppo sopravvalutato. Noi italiani siamo bravissimi a fare questo tipo di film, da cinema d’autore di nicchia: ma all’estero poi non ci premiano allo stesso modo di come s’è fatto con Somewhere; quei piccoli film d’autore italiano così tanto noiosi non fanno grande pubblico, poi però c’è l’ipocrisia dei film noiosi esteri, il cui cognome del regista all’anagrafe in questo caso è Coppola.
Voto 5,5 su 10
LA TRAMA - Protagonista del film è Johnny Marco, attore cinematografico americano di successo, un nichilista dei tempi postmoderni. Johnny non fa nulla. Trascorrere le giornate al sole della bella piscina dell’hotel Chateau Marmont, lussuosa residenza di West Hollywood, in California, meta dorata del mondo della spettacolo. Tra una nuotata e l’altra, una festa e l’altra, si ubriaca, amoreggia senza impegno, non pensa a nulla, nemmeno al tempo che passa. Attorno a Johnny scivola un’umanità perlopiù sconosciuta, composta da aspiranti attori e attrici in cerca di successo, ai quali basta anche soltanto un saluto confidenziale da parte della celebrità. E lui ricambia, educato, neanche troppo infastidito. La camera da letto di Johnny è un andirivieni di ballerine, attricette, amiche, conoscenti o appena conosciute. Sono talmente tante che la memoria non riesce a ricordare i lori nomi, confondendoli, e talvolta Johnny, sfinito dall’alcol, si addormenta su di loro. Anche il lavoro è qualcosa di distante da Johnny, attore privo di vocazione e interessi artistici. L’attore risponde a comando, docilmente, alle richieste di chi provvede al successo della sua carriera: un’intervista, un servizio fotografico, una conferenza stampa, una viaggio a Milano per partecipare alla serata di consegna dei Telegatti (con la fugace apparizione del corpo seducente e abbondante di Valeria Marini nella parte di se stessa, e la descrizione del mondo vuoto televisivo italiano con la comicità demenziale di Nino Frassica accanto la Ventura). Johnny ha anche una moglie, dalla quale vive separato, e una figlia adolescente, Cloe. D’un tratto Cloe si materializza a riempire la sua vita. Il padre scopre che la bambina pattina benissimo, è piena di interessi, sensibile, intelligente e cucina con pazienza e perizia. Cloe è cresciuta troppo presto: i due genitori hanno altro da fare che occuparsi di lei. In apparenza sembra sicura di farcela da sola, ma d’improvviso cede, prima di partire per una vacanza in campeggio, temendo di essere stata definitivamente abbandonata dalla madre e di non poter contare in futuro sulla presenza del padre. La paura della solitudine l’attanaglia. Come il vuoto del padre.