Sonetti dolenti e balordi

Da Dedalus642 @ivanomugnaini

“Presenze e paesaggi familiari emergono e si profilano lungo quel sentiero, ombre mute di guardia al vivo e straziato incanto di un universo dove ciò che è polvere riacquista corpo e voce e parla la lingua indivisa degli antri e delle fonti, della sabbia e della goccia che la fa rifiorire, del faro che smania luce dalla voragine oscura che si spalanca al richiamo del suo desiderio e la lascia sciamare libera nell’aria.”
Parto da questo brano della intensa e profonda prefazione di Francesco Marotta per parlare del libro Sonetti dolenti e balordi di Lucetta Frisa. Il sentiero è quello che l’autrice percorre con coerenza da anni nella sua attività letteraria: una lievità densa, una gravità percepita con consapevolezza ma senza mai cedere al gusto autolesionistico (anche nell’ambito della scrittura) del patetismo senza sbocco. E’ la parola che dà forma al dolore ma è la parola stessa che fa rifiorire questi sonetti. Dolenti ma non sconfitti prima di una danza di sfida, simile a quella dei Maori, tra forza e sberleffo, vitale, ironico, tenace. In questo senso forse i Sonetti sono anche “balordi”. Con quella follia che smania dalla voragine oscura ma è anche capace di sciamare libera nell’aria.
Il grido di Pessoa posto ad esergo della sezione Sequenza del dolore è esemplificativo: “sento il tempo come un enorme dolore”. Ma, poco oltre, due versi aprono una ferita che è anche feritoia, spazio aperto su prospettive altre: “Ma s’impara/ che [il dolore] ha mille nomi mille teste vive”. Ciò che si può nominare non diventa meno feroce, però diventa in qualche modo pensabile, oggetto di interazione, quasi soggetto vivo con cui dialogare.
Ho la possibilità di pubblicare la dettagliatissima prefazione di Francesco Marotta e lo faccio molto volentieri. Contiene riferimenti intertestuali ampi e precisi, ma anche una passione di lettore autentica e un apprezzamento non artefatto, non di maniera. Chi lo vorrà potrà trovare nella prefazione riferimenti puntualissimi in grado di approfondire svariati aspetti delle liriche che pubblico qui di seguito.
Follia, mistero, sogno.. ci sono in questo libro tutti gli ingredienti che costituiscono l’orizzonte espressivo di Lucetta Frisa. Miscelati in modo sempre nuovo, con ulteriori scoperte, passi lungo un sentiero che sembra identico ma muta, passo dopo passo. Questo rinnovamento nell’apparente immobilità rinnova la pena ma anche l’emozione, genuina. Quella che nella sequenza più privata viene sintetizzata dalle parole di René Char: “rido meravigliosamente con te/ ecco l’unica fortuna”. Nel dominio dei sonetti dolenti c’è spazio per il riso, se c’è ancora la sorpresa, la scoperta, la volontà di esplorare, perfino terreni bruciati dalla lava o spazzati da venti di uragano.
Scelgo alcune poesie. Anche se una lettura globale del libro, e, lo confermo, della sentita prefazione, parte integrante del testo stesso, forniscono una visione molto più adeguata del viaggio in forma di parole. Per confermare a noi stessi che leggere è “uscire da sé come un giorno/ chiudemmo la porta di casa dietro/ di noi senza le chiavi e il permesso/ dove vai – ci chiesero – non lo so./ Non contavamo i passi le parole/ degli altri credevamo nei numeri/ senza interruzione”. IM

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Sonetti dolenti e balordi

Aprendo i suoi sensi umani il dolore
si fece insopportabile come la gioia
lui volle proteggersi dalla rovina
degli eccessi e dal presente che costringe
azioni ed emozioni a recitare
qui il loro teatro e cominciò a salire
il colle sopra la città e comprese
tempo spazio ironia camminando
in salita respirando pensando
e non pensando più. Il corpo pensava
da solo i suoi occhi pensavano
tutte le direzioni: si fermò
a tradurre il suo grande sogno in libro
ma sapeva che l’amore non si legge.

***

Il dolore è lava di vulcani
colata a valle divenuta nera,
della polvere gli invisibili grani
sono sostanza dell’infinito nero
dei vulcani spenti. Ma s’impara
che ha mille nomi mille teste vive
moriranno insieme a te nel bianco
riflesso dell’occhio di chi ti vede
accartocciarti con il tuo dolore
senza nome e al tuo nome perduto
e a tutti i nomi degli amati giochi
- ferite e cicatrici disseccate -
e con le prime materne carezze
alle ebbrezze esplose ai primi fuochi.

***

La via Lattea non mi scivola sugli occhi
rivolti alla sua perlata scia.
Qui l’ombra di una formica la memoria
confusa del mondo con la sua storia
ottusa persa la sua antica follia.
Dicono i saggi che prima di noi
e dell’umano tempo saturnino
lei regnava indistinta dall’aria.
Ed io quando vado oscillando in bilico
tra pensieri e pensieri e poi slitto
su cose perfide infide e strappo
pelle pupille sesso mi possiede
follia di cullarmi nel suo grembo
snodata da tutti i qui e gli adesso.

***

Per vivere ho bisogno del mistero
occhi di un’altra specie sacre pietre
dipinte o incise nel buio delle grotte.
Scende tiepido dal polso alle caviglie
il mistero delle cerimonie
trattenuto e sfuggito al presente
perché anch’io m’inchino ancora e tendo
braccia mani gola e canto a chi non sente
e non mi vede ora che sono ombra
che vorrei sanguinasse come un corpo
stremato senza più metafore.
Vorrei credere un messaggio sacro
l’imprevista invasione della luce
sul mio scuro letto addolorato.

***

So che il congedo è solo mio solo io
posso gioire o piangermi addosso
solo io conosco il mio inferno lo strato
di terra l’ipogeo dell’inverno
lì mi stendo muta e nuda senza udito
né vista né storia né memoria
e lo specchio non c’è di maga che
mi ricordi chi ero se ero. Bellezza
intravidi da strappi, dai morsi
alle mele ho succhiato veleni,
sputai gli attimi e i lunghi respiri
tutto sembrava insipido da bere
e di tutto mi rimane il desiderio
che svuota e colma d’aria il bicchiere.

***

Non sento non sento nulla qui dentro
e si batte il petto secco con le dita
secche e l’occhio triste lei che sta
per morire vive l’incubo del cuore
svuotato come l’anfora che portò
l’acqua fresca e ora è riversa rotta
nel museo. Soffre di non più soffrire
nel dormiveglia del suo sonno futuro
non ama più né più domanda amore
mi guarda come la parete bianca
che ha davanti: unica cosa insensata.
E quando piango la penso e sentire
devo sentire sentirmi annegare
nell’acqua delle mie torbide lacrime.

***

Bisogna uscire da sé per entrare
negli altri nel loro dolore come
nella loro gioia entrare nell’erba
negli occhi dei cani nel cuore algido
dei metalli e dei sassi docilmente
entrare ovunque dicendo scusate
non siamo invadenti ma è per conoscenza
siamo divisi solo in apparenza
ad ognuno la sua parte e la sua voce
e la sua futura polvere. Sapete
chi siete e dove andate? Amateci
fate finta di parlarci compatirci
anche noi come voi siamo gli attori
di questa tragedia d’odio e d’amore.

***

Questi brandelli di sapienza astri
soli in mezzo al cielo vuoto apparsi
su pagine quasi tutte bianche
riempite da noi da chi ora vive
e li interroga qui tra vita e morte
cauterizzati come un’ustione
antica che ha perduto per sorte
la sua tenera pelle protettiva.
Si deve dire e intuire: ciò che è, è
perché può essere mentre il nulla non è,
allora noi non siamo o da un’altra riva
siamo o non siamo nulla ma potremmo
essere. Uomini ? Chiudo il libro
sotto questa perturbante luce

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Prefazione di Francesco Marotta

La passione dell’origine

In una pagina particolarmente significativa e premonitrice del Libro delle Interrogazioni, nel fervore di un dialogo serrato, estremo, con una parola che è vertiginosa coscienza del vuoto su cui il suo dire si staglia (il deserto che si profila in forma di risposta ad ogni domanda, l’assenza inesprimibile che il segno annuncia nell’attimo in cui depone sulla pagina la traccia febbrile del suo passaggio), Edmond Jabès annota, e ci lascia in eredità come una testimonianza gravida di futuro, una riflessione che è anche un preciso e inequivocabile indirizzo di poetica e di ricerca di senso: “Scrivere è avere la passione dell’origine; provare a toccare il fondo. Il fondo è sempre l’inizio. Anche nella morte, certo, una moltitudine di fondi costituisce l’abisso, tanto che scrivere non significa fermarsi alla meta, ma oltrepassarla senza fine”. La vocazione al superamento e all’oltranza, quantunque l’approdo finale del percorso, una volta varcata la soglia che la domanda dischiude come un precipizio, non sia altro che la certezza del silenzio, la memoria metamorfica di tutti i silenzi attraversati e da attraversare in un movimento infinito e circolare, si definisce nell’idea in atto di una sostanziale restituzione al pensiero della visione originaria, raccolta e addensata in tracce e in barlumi affioranti dal profondo, della caotica dismisura delle sue radici, ovvero nel disvelamento dell’enigma che la sua luce inglobante, ordinatrice e categoriale, riversa sulla superficie accompagnando gli esseri e le cose in tutto il tragitto della loro terrestre vicenda.

L’estrema tensione augurale del testo jabesiano, “alba e tramonto in una sola luce”, si materializza netta e inequivocabile davanti agli occhi della mente, con tutta la sua elementare progettualità di ethos nascente e la sua naturale inclinazione a definirsi in misura di paradigma estetico, ad ogni approccio a questi Sonetti dolenti e balordi di Lucetta Frisa, imponendosi come chiave gnoseologica ed ermeneutica privilegiata, disponendo ed orientando non solo la lettura e l’analisi dei testi, ma fornendo al contempo la mappa più precisa per collocare quest’opera in posizione di rilievo all’interno della produzione complessiva dell’autrice. Le liriche, infatti, non sono il frutto di una occasionale o momentanea e, quindi, immediatamente contestualizzabile accensione, quanto piuttosto “sogni” che “si sarebbero un giorno fatti carne”, il riaffiorare, in natura di lampi ed intuizioni erratiche, di frammenti lungamente covati nel corso degli anni, cresciuti sui margini in ombra di un disegno poetico che da La follia dei morti a Se fossimo immortali, da Ritorno alla spiaggia a L’emozione dell’aria, è venuto costruendosi nel tempo, con rigore, sapienza ideativa e padronanza crescente delle linee e delle strutture fondanti, come un’architettura intimamente e intellettualmente riconoscibile, solida e lineare nella sua voluta e ricercata esposizione ai punti cardinali della percezione e dello sguardo.

La passione delle origini, allora, quasi a sparigliare volutamente l’ordine del discorso, si ammanta in quest’opera di sfumature e colori affatto nuovi e li ricombina declinandosi in forme e modalità “balorde”, sottilmente e deliberatamente “sovversive”, refrattarie all’imperativo di poetiche organizzate unicamente in funzione della trasparenza e costrette, inevitabilmente, entro i reticoli e i codici escludenti di un orizzonte rappresentativo asettico e uniforme, monocromatico e monodico. Tutto ciò riesce possibile, e si realizza con esiti sorprendenti, in forza di scelte lessicali etimologicamente spurie e perturbanti, di un balzo nella penombra del non-detto e del non-ancora tanto sul piano dell’utilizzo sghembo e obliquo, disarmonico e dissonante, di strutture metrico-sintattiche consolidate (il sonetto richiamato dal titolo), quanto su quello di una suggestiva e spiazzante inversione del moto ascensionale che caratterizza, per tradizione o per consolidata convenzione filosofica, ogni processo consapevolmente e compiutamente conoscitivo. Un processo la cui progressione verticale viene rovesciata in una vertiginosa discesa nell’abisso, fino alle viscere ribollenti della materia e dell’essere (“Per vivere ho bisogno del mistero / occhi di un’altra specie sacre pietre / dipinte o incise nel buio delle grotte”): una metamorfosi tutta inglobata e interiorizzata, che comporta la rinuncia a ogni pregressa coordinata razionale e a qualsivoglia permanenza statica del soggetto nel cerchio di una verità e di un senso dati, capace di tramutare in mistero il chiarore, di farne avvertire tutta l’insostenibilità, tutto il peso della carica radiante che ci tiene indissolubilmente legati all’esistenza attraverso una rappresentazione astratta e geometricamente riproducibile del creato, attraverso la ricezione unilaterale della molteplice e polifonica cadenza dei nostri stessi passi (“un enigma per me / camminare in superficie”): da qui la necessità, pungente fino allo spasmo ultimo e alla dissoluzione, dello svelamento, l’urgenza della restituzione di ogni luce alla matrice oscura da cui promana (perché solo “il nero nel sottosuolo / tiene il seme del mondo”), di ogni orma sonora alla dimora da cui si parte, si diffonde e si fa eco e pensiero, mappa udibile e leggibile, plurale, di ogni possibile cammino.

Il poeta sa che il suo canto, parto ed erede della dicibilità del mondo e della progressione razionale della voce tra le maglie di un universo che si rende decifrabile solo nella persistenza inclusiva ed univoca dell’ordine e della luce, ha bisogno di sguardi altri (“occhi di un’altra specie”) ai quali sorreggersi e dai quali lasciarsi guidare in questa catabasi fino alla dimora abissale del principio: altri occhi che parlino, attraverso lo stupore ammutolito dei suoi, la lingua umbratile delle origini, il verbo oltraggioso e inafferrabile di un panteismo apocrifo e pagano, l’alfabeto ferito e sanguinante di chi ha lungamente sperimentato il dolore, la follia, l’esclusione, l’inesistenza, la morte pur di aprire una breccia, con lo stilo, la passione e il furore del suo “grido inascoltato”, nel “silenzio di dio”. Il dolore e il lutto cercano i suoi occhi e la sua bocca, finalmente liberi dalle catene di una luce che esclude il suo rovescio simmetrico, per farsi specchio e visione, per seminare nella nudità del giorno il loro carico di spine e di memorie, la loro sete inappagata di riconciliazione.

Il viaggio oracolare, ossimoricamente dissoluto e aggregante (“io dei balordi sono la vestale”), si articola in sequenze pulsanti come partiture di un coro senza requie, dove le parole si cercano, si allontanano, si rincorrono e si riafferrano come respiri vaporati dai pori di un unico immenso corpo danzante: in ognuna di esse si apre un vortice visivo, un centro immaginale che raccoglie e recupera voci e volti privi di ogni anteriorità e di ogni futuro, presenti da sempre come macchie invisibili d’inchiostro sui bordi levigati di testualità già precedentemente meditate e scritte, come stimmate che, ora, dalla pagina irraggiano nella carne la luce demente o saggia dell’attesa – che covano, all’insaputa dei giorni, il sogno inesauribile di una vita sul limitare di una nuova“’apertura”, la risalita dal caos informe della morte agli orizzonti della ricomposizione. Sono profili che parlano, da lontananze estreme, l’alfabeto familiare dell’insonnia, ombre protettive con le quali lungamente abbiamo dialogato perché le sapevamo, da sempre, portatrici di un verbo innominabile, di un dolore inesprimibile, l’unico capace di contenere e di rivelare “divinità nascoste” scorticandole “fino alla nudità”: sogni senza tempo di un’epifania suprema, lo squarcio tra le pieghe del reale che annuncia la risalita dagli abissi di Kitež, la città invisibile che dimora gli spazi inesplorati e incontaminati delle nostre esistenze.

Presenze e paesaggi familiari emergono e si profilano lungo quel sentiero, ombre mute di guardia al vivo e straziato incanto di un universo dove ciò che è polvere riacquista corpo e voce e parla la lingua indivisa degli antri e delle fonti, della sabbia e della goccia che la fa rifiorire, del faro che smania luce dalla voragine oscura che si spalanca al richiamo del suo desiderio e la lascia sciamare libera nell’aria. Qui si respira la follia di dio: un soffio che per la pupilla murata del presente, per la sua cecità “che costringe / azioni ed emozioni a recitare”, è canto balordo, illusione demente e distorta, ma che, per armonia e risonanza indicibile di poesia, si trasforma in matrice di stupori impensabili, stupori di un tempo senza tempo, di una terra senza nascita e senza morte. Qui Nadežda può ricomporre il volto dell’amato strappandolo agli artigli della storia, custodire il segreto del suo nome a “protezione dal male / della terra”, e col suo canto trasformare in preghiera il furore dei lupi che l’assediano; qui Andrea Salos, investito dalla stessa pazzia celeste, può riaprire la sua bocca, muta da secoli, che ha conservato e vegliato parole potenti e fraterne come un abbraccio, pronte ad accogliere l’ultimo volo dei perseguitati dal destino; qui la donna velata di Elea ancora ritorna a riprendersi la “luce sparsa” dal suo corpo sotterrato e la ridipinge “per chi resta”, ripetendo il miracolo della vegetazione, degli astri e delle stagioni, del disfacimento e della rinascita. Qui il lutto di Alejandra è il dolore taciuto di tutte le creature che trascorrono la loro esistenza “acquattate come bestie in allarme”, che “si dolgono di solitudine / incurabili, inascoltate”: volti perduti per sempre, ai quali può ridare voce solo chi stringe nelle sue mani il filo che tiene i vivi e i morti insieme: solo chi sa farsi lacrima che eternamente migra, di vita in vita, fino a lambire l’immobile riva degli occhi di dio.



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