Song of silence

Creato il 28 maggio 2014 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma

Anno: 2012

Distribuzione: Distribuzione Indipendente

Durata: 114′

Genere: Drammatico

Nazionalità: Cina

Regia: Chen Zuo

Data di uscita: 29 Maggio 2014

Jing è un’adolescente sordomuta, figlia di genitori separati. Abita in un villaggio di pescatori col nonno e lo zio perché non vuole vivere con la madre e il suo amante. Trascura gli studi e cerca costantemente rifugio dal giovane zio, l’unica persona a farla sentire amata. Ma il rapporto tra i due finisce per oltrepassare i limiti della moralità, così la ragazza è  costretta a trasferirsi dal padre, condividendo la sua casa con Mei, l’amante del genitore. Il rapporto tra due donne così diverse, con il passare del tempo, si trasformerà: l’ostilità e la diffidenza diverranno comprensione e solidarietà.

Davvero interessante l’esordio alla regia di Chen Zhuo, regista cinese, classe 1978, per la sorprendente maturità di sguardo e la capacità di porre, attraverso la tessitura di una trama fitta e carica di simbolismi, una raffinata riflessione sull’arte, declinando al femminile una resistenza umana ed estetica che è contemporaneamente e, inevitabilmente, anche etica.

Colpiscono in particolare alcune sequenze che riescono a ‘mostrare’ con semplicità ed immediatezza il rapporto tra rappresentazione e ciò che la eccede, rendendo visibile il processo di desaturazione necessario a lasciare emergere un’immagine ‘altra’, in virtù di un movimento che delocalizzando l’oggetto ne rinnova la funzione e provoca un disorientamento dello sguardo, mutandone la prospettiva.

Seguiamo, all’inizio del film, Jin nei suoi percorsi urbani, negli spazi sconnessi della città, in un ‘andare a zonzo’ che disvela, e, all’improvviso, dalla finestra di un palazzo precipita un quadro che per poco non la colpisce: ecco, questa potrebbe essere definita, letteralmente, ‘una ricaduta idolatrica del prototipo’, ossia quella degenerazione del processo creativo che rende l’immagine decorativa, consolatoria, relegando lo spettatore in un ruolo passivo, da frequentatore recidivo di musei; per fortuna Jin scampa la collisione, e la vediamo proseguire tranquilla nel suo tragitto, determinata a mettere in scacco il linguaggio.

Passiamo agli interni, e Jin, che adesso convive con l’amante del padre, Mei, mette in atto la sua rivolta producendosi in un gesto violento, anche macabro (e ci si potrebbe qui sbizzarrire nelle interpretazioni psicanalitiche), uccidendo, come aveva visto fare dallo zio sul mare, i pesciolini rossi di un acquario, immergendo un filo elettrico nell’acqua; poi li raccoglie e li stende uno ad uno al sole con delle mollette. Certo, di primo acchito quest’azione potrebbe essere interpretata come metafora dell’aborto spontaneo che patirà in seguito, ma ciò che qui interessa è proprio quel dislocamento  di cui si diceva sopra, attraverso cui l’oggetto acquisisce una nuova valenza, provocando un mutamento sul versante della fruizione, e l’occhio di chi guarda è invitato a indirizzarsi altrove.

Jing e Mei son due donne che resistono eticamente, contrapponendo la loro diversità al mondo circostante, l’una col mutismo, l’altra con il canto, traforando l’ordine simbolico come una groviera, e creando, quindi, degli spazi in cui l’eccedenza del loro esistere trova una collocazione e una forma. Nel film non ci sono riferimenti all’attuale situazione politica della Cina, neanche sullo sfondo, perché la sovversione messa in atto dalle protagoniste è di natura etica ed estetica, ma così, intelligentemente, il regista è riuscito a passare indenne le strette maglie della censura di Stato, pur facendo trapelare questo anelito di libertà.

Il film prodotto da Gianluigi Perrone (che tra l’altro è un nostro valente collaboratore, sua la rubrica FAHRENHEIT 451) e distribuito da Distribuzione Indipendente di Giovanni Costantino arriva nelle sale con 27 copie; certo non sono molte, ma confidiamo che il passaparola riesca a far aumentare la circolazione di questa piccola-grande opera. Staremo a vedere.

Luca Biscontini


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