L’equipaggio di cui faceva parte, composto dal pilota Rick Martinez (Michael Peña), Beth Johanssen (Kate Mara), esperta di tecnologia ed informatica, Alex Vogel (Aksel Hennie), chimico tedesco, Chris Beck (Sebastian Stan), chirurgo, su decisione del comandante Melissa Lewis (Jessica Chastain) ha infatti abbandonato il Pianeta Rosso vista l’immanenza del pericolo, anche perché Mark, colpito all’addome dal frammento di un’antenna, non rispondeva ormai ad alcun messaggio e veniva dato per morto. Invece, proprio la ferita risultava addirittura provvidenziale, visto che il suo coagulo fungeva da tappo per mantenere la decompressione all’interno della tuta e ne permetteva la sopravvivenza. Fatto ritorno all’Hab, la struttura abitativa presso Acidalia Planitia, il buon Mark, una volta provveduto alle cure necessarie, mette definitivamente a fuoco la propria dimensione di naufrago dello spazio o, meglio, sovrano assoluto del pianeta, tutto da esplorare per scoprirne ogni segreto, coerentemente con lo spirito della missione cui era stato assegnato.
Intanto laggiù sulla Terra, a funerali ormai avvenuti, il monitoraggio continuo via satellite di Marte presso la NASA, volto a stabilire se quanto inviato negli anni possa ancora essere utilizzato per le prossime spedizioni, evidenzia agli occhi attenti di Mindy Park (Mackenzie Davis), ingegnere della sezione Satellite Communications, una serie di particolari che fanno intuire come l’astronauta sia ancora vivo e si stia dando da fare per mantenersi tale, mettendo in atto tutta una serie di attività, come la pulizia dei pannelli solari.
Ora il problema è poter comunicare con lui e la soluzione la offre lo stesso Mark, recuperando il Pathfinder di una precedente missione, datato 1997, coadiuvato efficacemente al riguardo dall’entusiasta dr. Venkat Kapoor (Chiwetel Ejiofor).
Mentre i vertici della NASA e la squadra del Jet Propulsion Laboratory discutono il da farsi, proponendo ed attuando vari piani, per il novello pioniere i guai sembrano non aver mai fine e, pur con tutto l’ottimismo messo in campo, si prospetta una lunga e perigliosa odissea …
Matt Damon
Sceneggiato da Drew Goddard su soggetto dell’omonimo romanzo di Andy Weir, pubblicato inizialmente a puntate sul web, attualizzazione de Le avventure di Robinson Crusoe (The Life and Strange Surprising Adventures of Robinson Crusoe, Daniel Defoe, 1719) e diretto da Ridley Scott, Sopravvissuto- The Martian non andrà certo ad aggiungersi alla lista dei noti ed acclamati capolavori sci-fi del regista inglese. E’ comunque idoneo ad avvallarne una ritrovata creatività, da rinvenirsi nella capacità di offrire una vibrante e coinvolgente visualizzazione a tematiche lontane dalla disperazione distopica propria di un futuro foriero di catastrofi imminenti o già avvenute, oppure dall’incontro con terrificanti esemplari di specie aliene sconosciute ai più.
Come nel citato romanzo d’origine, nel corso della narrazione viene prospettato, infatti, un domani che è proiezione di un proficuo mutamento dell’oggi, dove l’ottimismo del singolo, la sua ferrea forza di volontà nel fronteggiare le avversità avvalendosi di un ingegno intellettivo pronto a far tesoro di ogni esperienza, positiva o negativa, potrebbe costituire un valido sprone per uno sfruttamento più consapevole delle risorse, tanto di quelle tuttora a disposizione, quanto di quelle passibili di nuova conoscenza.
La resa scenica di Marte, per quanto avvalorata dalla fotografia di Darius Wolski e dalle scenografie di Arthur Max (con un 3D nel complesso funzionale ma a mio avviso non così indispensabile), nella combinazione fra immagini create in studio e riprese dal vero (Giordania) appare volta ad un concreto realismo più che ad una fantasmagoria immaginifica. Ecco che allora i campi lunghi offerti da Scott appaiono funzionali a valorizzare tanto ogni anfratto roccioso del pianeta quanto il senso di solitudine e pioneristica sopravvivenza di Mark, caratteristiche d’altra parte efficacemente rese dall’interpretazione di Damon.
Quanto descritto lo si può ravvisare più o meno in quella che personalmente ho interpretato come la prima parte del film, quando Mark, coinvolgendo noi spettatori, esterna i suoi pensieri attraverso un diario visuale ponendosi la domanda se si lascerà prendere dallo sconforto, accettando un lento suicidio, oppure si darà da fare per accendere la speranza. Qui il possibile tedio insorgente dalle varie spiegazioni su quanto messo in atto per mantenersi in vita viene mitigato in primo luogo dalla plausibilità, che comprende anche l’insuccesso dei vari tentativi fino alla stabilizzante soluzione, per quanto lungi dall’essere definitiva (come la creazione dell’acqua, semplice a parole …).
La via prescelta appare quindi volta a preferire la tensione narrativa offerta dalla successione degli eventi alla suspense propriamente detta.
La suddetta tensione scatta in particolare una volta che alla NASA accertano l’essere in vita dell’astronauta e mettono in piedi la complessa macchina organizzativa con i soccorsi. Ora tutto diviene più movimentato e il buon vecchio Scott sembra divertirsi molto nell’alternare le immagini relative alle varie discussioni all’interno dei bui uffici, dove la ferrea applicazione delle regole da parte dei vertici della Nasa rappresentati da Teddy Sanders (Jeff Daniels) si scontra con il pragmatismo temerario del fare squadra dei suoi sottoposti, a quelle su Marte, dove Mark spesso procede in base al suo istinto, infischiandosene delle istruzioni impartite. Un sapido guizzo della visionarietà propria di Scott la si può percepire nella splendida sequenza del tentativo di salvataggio, che si svolge, almeno riporto la mia personale sensazione, come se se stesse accadendo in tempo reale, con una drammaticità particolarmente percepibile.
L’evoluzione dell’essere umano, le sue origini, le sue conquiste, la ricerca continua nel dare un significato alla sua esistenza, al di là del confidare o meno in un’Entità che lo sovrasta e lo ispira, rappresenta nient’altro che un eterno fluire e alla fine i conti si faranno con la propria interiorità e i propri limiti, pur con tutto lo scibile acquisito durante il cammino.