Sopravvivere alla scuola governativa indiana

Creato il 09 marzo 2016 da Sopravvivereinindia @svivereinindia

Quando lavoravo con i teenager in Italia sapevo benissimo come abbindolare i miei inutili adepti, fingevo sicurezza e non dimenticavo mai di dimostrare il mio odio verso i teenager.

Loro sapevano che li odiavo, io sapevo che sapevano e vivevamo bene, non provavo ad ingraziarmeli, non provavo a fare la simpatica, la tipa alla moda, quella sgaia con i piercing e i tatuaggi, quella giovane dalla parte dei giovani, no, io mettevo subito in chiaro il fatto che io sono dalla parte dei vecchi.

La certezza che lo sfacelo dei teenager italiani non è altro che la conseguenza della fine dei cartoni giapponesi dalle 12 alle 2pm mista a genitori che non danno sberle, mi aiutava a organizzare le giornate, evitando rotture di palle e riuscendo anche a farmi ascoltare.

Tutte le certezze che avevo in Italia, qui in India vengono a mancare.

Pai Mei mi ha lasciato in eredità una classe di studenti con un numero variabile da venti a trenta, tutti ragazzi di cui l’unica cosa che so è che sono poveri. Non si sa quanto poveri ma l’unica cosa che Pai Mei mi ha detto è questa, poveri poveri. Pai Mei non è mai stato un uomo chiaro nelle sue spiegazioni e ancora non mi spiego perché avevo sottovalutato la sfida che mi era stata data.

Iniziamo il racconto “una lezione X alla scuola governativa” con una piccola premessa, sono abbastanza certa che un buon 80% degli studenti non sa e non capisce l’inglese. Come dice sora lella “annamo bene proprio bene”.

Con questa consapevolezza e con la certezza assoluta che io non so cosa posso fare per questi ragazzi inizio la lezione.

Il mio volontariato consiste nell’insegnare yoga a questi ragazzi, il fatto che io, donna nera occidentale, insegni yoga a dei ragazzi poveri indiani che parlano sanscrito, conoscono il nome di tutte le posizione e praticano yoga da prima di me, non disturba nessuno. Beh disturba un po’ me perché forse sono io che potrei imparare da loro, se solo loro capissero cosa dico, ma la logica non fa per l’India.

Se non conoscete gli indiani dovete sapere che lo straniero per loro è un misto di racconti fantastici, un mostro da evitare, un infedele, una persona SICURAMENTE ricchissima, una persona da prendere per il culo e forse, successivamente, da apprezzare. Diciamo che per adesso io sono ferma alla parte “persona da prendere per il culo”.

La fortuna dell’India è che qui la gente non si capisce, parlano ventimila lingue diverse, ogni regione ha una propria lingua e credo che questa incomprensione sia la chiave per la pace in questo paese.

Inizio la lezione in inglese e subito iniziano le prese per il culo per il mio accento, gli indiani non hanno paura di deriderti in faccia anche se sanno che tu li capisci. Quando si stancano di prendermi per il culo per il mio accento iniziano a prendermi per il culo in hindi, quando capiscono che io capisco un po’ di hindi parlano in marathi.

È una guerra che ho già perso, continuo a lottare solo per il piacere masochistico che contraddistingue noi giovani cresciuti a Lupin e catechismo.

Finisco la parte teorica, parte che ho deciso di continuare a fare più per prendere tempo che per una sicurezza che qualcuno veramente mi dia ascolto, mi crogiolo nell’attenzione che mi danno quei tre ragazzi su trenta e inizio la parte pratica.

La parte pratica è facile se sai cosa stai facendo, conosci i tuoi polli e sei una nazista dell’allineamento, loro devono solo guardare e ripetere, se non capiscono un cazzo non importa. Sottovaluto la capacità degli indiani nel complicarsi la vita e inizio a spiegare la parte pratica, correggo la postura ad un ragazzo e vengo invasa da risatine e urla.

Uno dei pochi momenti di vero silenzio e concentrazione!

Cazzo, ero così concentrata nel capire l’hindi che non mi sono ricordata del fatto che qui toccare un maschio non si fa. Con sforzi sovraumani spiego a trenta maschi come correggere i loro errori senza la possibilità di toccarli, in pratica fatico il triplo ottenendo un terzo della concentrazione necessaria. So, con assoluta certezza, che almeno cinque di loro stanno sbagliando apposta per vedere se gli tocco la schiena, il braccio, la gamba o forse stanno solo sbagliando apposta per ridere un po’, un po’ di sano bullismo.

Conduco questa guerra con la stessa serenità di una ragazza negra e sola ad un raduno di Salvini, affondo lentamente ma non mollo, mi aggrappo alla speranza di quei cinque ragazzi che veramente mi seguono.

Prima di finire la lezione decido di fare auto gol, di martellarmi le ovaie da sola, quindi non contenta del fatto che in un’ora mi sono fatta prendere per il culo per la pronuncia, mi sono fatta circondare perché la maglia era leggermente larga quindi si intravvedeva la bretella del reggiseno, ho assunto posizioni sovraumane per spiegare quattro cagate, non contenta di questo decido di dire la preghiera in sanscrito.

Credo di averla detta più per provare a me stessa che al peggio non c’è mai fine e l’animo umano tende al sacrificio che per una vera speranza di essere apprezzata per lo sforzo, fatto sta che la mia pronuncia deve essere stata pari a quella delle badanti rumene che provano a parlare in dialetto veneto.

Le risatine non erano più tali ma erano vere e proprie risate a bocca spalancata. Io, seduta al centro in una stanza che veniva pulita da prima della mia nascita, non ho potuto fare altro che rimproverare me stessa ricordando i giorni in cui volevo le stigmate per diventare famosa come Padre pio, comprendendo appieno gli insegnamenti cristiani.

Sono in guerra e la mia attrezzatura assomiglia a quella dei soldati italiani nella seconda guerra mondiale, sono assetata di alleati e Pai Mei tornerà in India solo a settembre.

Aiuto.