Provo a rendere l'idea così. Joyce Carol Oates ha scritto Sorella, mio unico amore a 70 anni. All'età di settant'anni questa donna ai limiti del geniale si è immedesimata in un diciannovenne sociopatico, disabile e tossicodipendente, che all'età di nove anni è stato silenziosamente accusato di aver ucciso la sorellina.
Silenziosamente, perché il presunto vero colpevole si è suicidato in carcere quindici giorni dopo il fatto: un pedofilo che, lui sì, da diverso tempo inviava regali e bigliettini d'amore alla bambina, promessa mantenuta del pattinaggio artistico. Solo che non è detto che quel pedofilo l'avesse uccisa davvero. Lo ha ammesso e poi è morto, e al mondo è bastato così.
La sorellina di cui sopra volteggiava sul ghiaccio con l'eleganza di una prima ballerina alla stessa età in cui gli altri bambini piagnucolano con il dito in bocca perché non vogliono andare all'asilo. I suoi genitori avevano tentato questa strada con il primogenito - pattinatore sul ghiaccio per volere della madre, ginnasta per volere del padre - ma un esercizio ginnico concluso con multiple fratture mai risolte ha portato i coniugi a desiderare un altro figlio. Giusto per non veder sfumati i loro sogni.
Ecco, ho già detto troppo. La storia è toccante, probabilmente vera, di certo molto simile a quella di tanti genitori che riversano sui propri figli ciò che non sono mai stati. Ma il punto è un altro. Joyce Carol Oates ha scritto questo romanzo a settant'anni. Se ci penso ho i brividi. Ogni tanto, leggendo, mi fermavo e ci pensavo. Poi vado su Wikipedia e leggo l'elenco di tutto quello che ha scritto. E i brividi continuano.
ps. Joyce Carol Oates è fra gli esponenti di un genere che si può definire realismo isterico, ossia (cito sempre da Wikipedia) "caratterizzato da lunghezza cronica, personaggi maniacali e frequenti digressioni su argomenti secondari rispetto alla storia" e che ha fra i suoi nomi di punta Zadie Smith, Don De Lillo, Jonathan Safran Foer e David Foster Wallace.