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Sotto la pioggia o in canottiera: elogio del tifoso autentico.

Creato il 04 aprile 2013 da Emialzosuipedali @MiriamTerruzzi

Ci sono quelli “della domenica”, che nel week – end, quando fuori piove, non sanno cosa fare e si mettono davanti alla tv: piuttosto che niente va bene anche il ciclismo. Ci sono quelli che si ricordano di tifare per un corridore quando vince: “alura l’è fort!” come direbbero i miei brianzoli. E ci sono quelli che si alzano di mattina presto per raggiungere la strada che porta a un traguardo, che salgono magari a piedi trascinandosi dietro lo zaino con gli striscioni scritti la sera prima, invadendo la casa di quell’odore acre, penetrante che viene dalle bombolette spray. Che arrancano con le loro biciclette costose o economiche per poi abbandonarle tutte alla stessa maniera, addossate a una parete, sui prati e stare lì, in bilico sui tacchetti, ad aspettare le prime moto che precedono la carovana della corsa. Quelli che si bevono con avidità l’emozione semplice e effimera del passaggio di un drappello di ciclisti. I loro ciclisti. I tifosi “da stadio” come si dice, prendendo in prestito l’eredità calciocentrica di questa Italia nel pallone. Tifosi “da strada” verrebbe da dire e forse sarebbe più adatto, proprio per quell’attaccamento di 577589_10150839601648247_1763805239_nanima e corpo a quello che, da sempre, è lo stadio a cielo aperto del ciclismo: la striscia di asfalto, a volte interminabile, altre troppo breve, che conduce al traguardo.

Tifosi. No, non è bella questa parola, a dire la verità. Bisognerebbe trovarne una nuova per descrivere quello che è il tifoso autentico, genuino, vero. Una parola più calda, che possa avere in sé la gutturalità delle grida di incoraggiamento e la dolcezza di quell’emozione contenuta, prima del passaggio al GPM di giornata. Una parola che faccia pensare alle ore passate in attesa, sotto la pioggia battente, ingolfati nei k-way, con i nasi gocciolanti e, allo stesso tempo, al caldo torrido di certe giornate dove l’aspettazione è imperlata di sudore e l’unico indumento che si può sopportare addosso è una bandiera, che sia della nazione o della squadra del cuore. No, non è semplice trovare una parola che possa contenere tutto, persino quel rapporto un po’ mistico che c’è tra il corridore e il suo tifoso: qualcosa di primigenio, tra bambino e beniamino. Fatto di ammirazione fragorosa, di corse un po’ ingombranti, di un perpetuo “carpe diem” per cogliere il passaggio e inseguirlo, fino a che il respiro si fa affannoso e le mani diventano rosse per gli applausi. Un rapporto che, tra piedi e bicicletta, resta sempre così vicino da sembrare intimo: tutto lì, sullo stesso asfalto rovente o intriso d’acqua, sotto lo stesso cielo, minaccioso o clemente. Condividono tutto, il ciclista e il tifoso: una pagnotta divisa a metà. E  questo strano scambio, forse, a guardarlo e a sentirlo bene è veramente una vena pulsante del ciclismo, della sua anima. Pulsa lo stesso cuore, tra le grida che si arrampicano per una strada che aspetta una corsa. Pulsa lo stesso cuore tra tutti quegli “omini” che attendono pazienti sullo Zoncolan, gli eroi del Giro. “Indiani” li chiamano e, visti così, ogni volta, hanno l’aria leggendaria e grandiosa: la faccia dalle mille fisionomie di uno sport che è tra la gente, per la gente. Indiani o no, nel tifoso autentico, che mangia pane e salame con gli occhi impazienti sempre rivolti alla strada, che non rimanda una tappa dal vivo solo perché piove, c’è qualcosa di estremamente potente, commovente, che racconta di uomini e di passione sincera, senza fronzoli. Qualcosa di legato indissolubilmente al ciclismo. Perché il ciclismo sa profondamente di umanità, è la sua pelle. E questo non potrà mai essere dimenticato o ignorato finché lo grideranno per le strade o lo scriveranno sull’asfalto.

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