Sovranità Popolare, corti e pluralismo normativo: il referendum come via alla secessione?

Creato il 03 giugno 2014 da Ilnazionale @ilNazionale

3 GIUGNO – Si è svolto lo scorso 30 maggio, presso il Dipartimento di Scienze Giuridiche dell’Università degli Studi di Verona, un convegno internazionale dal titolo Sovranità Popolare, corti e pluralismo normativo: il referendum come via alla secessione?

Il tema è quanto mai attuale se si pensa che lo scorso mese di marzo il referendum indetto in Veneto dal gruppo Plebiscito.eu sull’autodeterminazione –dal valore non vincolante, ma comunque significativo- ha raccolto più di due milioni di voti favorevoli, segno dell’evidente malessere che scuote il Nord-Est. Dopo le elezioni dello scorso 25 maggio, il Premier Matteo Renzi ha affermato che l’unità del Paese è irrinunciabile e che «Il Veneto è troppo importante per l’Italia».

Maria Caterina Baruffi, vicepresidente del Dipartimento scaligero e docente in diritto dell’Unione Europea, segnala come gli europeisti assistano quotidianamente a un’erosione delle competenze statali che comporta istanze secessioniste volte anche alla tutela dell’identità nazionale o locale e regionale. L’Unione Europea dà spazio alle Regioni ma la creazione di entità sovranazionali pone dei problemi su questo tema. «I nuovi Paesi che venissero a nascere aderirebbero automaticamente all’Unione o dovrebbero fare una nuova richiesta di ammissione? –sottolinea la docente- Gli studiosi di diritto dell’Unione Europea devono porsi queste significative domande».

Il prof. Chris Himsworth, dell’Università di Edimburgo si pone il problema “who decides what decides?”, ossia “chi decide e che cosa?”. Fra quattro mesi il popolo scozzese dovrà infatti rispondere a un referendum sull’indipendenza. Presto anche le Corti europee dovranno decidere su questi temi, pertanto bisogna ragionarci. Anzitutto l’argomento va contestualizzato in termini storici e costituzionali, date le particolarità della situazione, diversa da quella catalana. Il popolo scozzese può lasciare il Regno Unito se lo desidera in qualsiasi momento, dopo esservi stato aggregato nel 1707, dato che è questa la natura dell’unione stessa. «In altri Paesi i principi costituzionali sono diversi –afferma il relatore- Qui prevale il principio consensuale, l’unità si basa su un trattato di unione fra due regni in origine divisi.

Il problema della secessione si è posto recentemente anche nell’Irlanda del Nord, per cui nel 1998 il Northern Ireland Act ha stabilito che essa rimarrà parte dell’unione fino alla formazione di un consenso maggioritario in senso contrario. Naturalmente il punto di divisione principale al riguardo è la desiderabilità di uno scenario di secessione della Scozia come dell’Irlanda del Nord, che normalmente è contrastato dagli altri popoli del Regno e dal governo». Lo Scotland Act nel 1998 ha creato un parlamento e un governo scozzese con notevoli competenze. Dopo vari governi di coalizione dovuti al sistema elettorale proporzionale, dal 2007 vi è un governo di minoranza costituito dal solo Scottish National Party (SNP), un partito dichiaratamente indipendentista. Subito dopo la loro elezione, i membri di questo partito hanno costituito una Conversazione Nazionale sui temi relativi all’indipendenza. Nel 2011 lo SNP ha ottenuto la maggioranza alle elezioni, rafforzando il governo scozzese nella volontà di perseguire l’indipendenza. E’ stato allora possibile emanare la legislazione necessaria per l’indizione del referendum sull’indipendenza, pur ponendosi problemi di natura costituzionale sulla competenza del parlamento scozzese a emanare un Referendum Act. Una parte dell’Unione non può cambiare la costituzione di tutto il Regno e un referendum emanato dal solo parlamento costituzionale si ritiene che avrebbe solo una valenza consultiva, non potendo incidere sul diritto dell’Unione.

«Il 15 Ottobre 2012 –ha precisato Himsworth – il governo scozzese e quello inglese hanno concordato un referendum su di una base legale chiara, approvata dal parlamento scozzese, che dovrà essere rispettata da tutti. Anziché mutare lo Scotland Act si è preferito attribuire, da parte del governo inglese, una delega a legiferare su di un tema altrimenti non di propria competenza. Come condizioni è stato previsto che il referendum dovesse tenersi entro il 31 dicembre, non in contemporanea con altre votazioni e con una scelta netta fra due sole risposte: si/no, senza risposte intermedie. Il risultato è tuttora incerto, dato che non tutti gli elettori dell’SNP sono a favore dell’indipendenza, per cui hanno voluto attendere del tempo per incidere sulle convinzioni del popolo scozzese. E’ stato dunque approvato nel 2013 lo Scottish Independence Referendum Act, che ha stabilito la data della consultazione e le regole della campagna referendaria. La domanda è La Scozia deve essere un Paese indipendente? Yes/no. Il popolo scozzese votante è stato composto da coloro che avranno 16 anni il 18 settembre 2014 e che risultano residenti in Scozia, senza poter votare altrove, con l’esclusione dei carcerati. I governi scozzese e inglese hanno peraltro dichiarato che continueranno a cooperare sulle materie di interesse comune e a rispettarsi, quale che sia il risultato del referendum».

Elisenda Casanas Adam, collega di Himsworth presso l’ateneo di Edimburgo, ha approfondito l’approccio degli Scozzesi al tema del referendum. «Il referendum per l’indipendenza della Scozia è una sfida alla sovranità di Westminster qualunque sarà il risultato. Cosa succederà dopo il voto? Quale ruolo avranno le corti giudiziarie in questa vicenda? Come inciderà sulla costituzione inglese? Inizialmente lo SNP proponeva tre opzioni di scelta, inclusa una devolution più ampia, e l’opinione pubblica scozzese era ed è molto divisa fra le varie opzioni, possibili modificando l’assetto costituzionale inglese ed ampliando le competenze delle varie parti dell’unione, il che in altre realtà costituzionali sarebbe impensabile». Anche nel 2012 con lo Scotland Act si è cercato di attribuire maggiore autonomia alla Scozia per contrastare il crescente consenso verso l’indipendenza. Il parlamento inglese ha sempre mantenuto il potere di legiferare nelle materie devolute al parlamento scozzese, chiedendo comunque anzitutto il permesso di quest’ultimo. La riforma non ha cambiato profondamente il sistema precedente. Il governo inglese ha stabilito che dovessero esserci solo due risposte al refererendum, molto secche, sebbene una terza opzione avrebbe probabilmente avuto maggiore successo. «Cosa accadrebbe se vincesse il sì? –continua Casanas Adam- Vi sono varie proposte, una delle quali propone una serie di fasi: in una prima fase la Scozia resterebbe nel Regno Unito ma inizierebbe a trattare con le altre parti del Regno poi, in una seconda fase, si formerebbe il nuovo Stato. E’ discusso quanto dovrebbe durare la transizione, che potrebbe prolungarsi fino al 2016 secondo alcuni, cioè fino all’anno delle nuove elezioni del parlamento scozzese. Le negoziazioni dovranno essere costruttive e volte a tutelare sia l’interesse del popolo scozzese che di quello inglese. Sullo spirito di questo accordo fra i due governi si ritiene che non sarà difficile compiere i necessari accordi per la transizione verso l’indipendenza».

Si discute se la Scozia dovrebbe avere una costituzione scritta e come dovrebbe organizzarsi come Stato, quali rapporti dovrà avere con l’Unione Europea. Il governo inglese al momento ritiene che nel caso di un voto favorevole le negoziazioni saranno svolte in modo diverso dal passato, dato che oggi il Parlamento UE rappresenta tutti i cittadini dell’Unione, mentre dopo dovrebbe rappresentare tutti gli altri eccetto gli scozzesi. In realtà non è chiaro su che base legale avverranno queste trattative e in caso di contrasto chi avrebbe la giurisdizione necessaria a risolverli. Una corte inglese forse non potrebbe risolvere simili controversie ed, in ogni caso, bisognerebbe prima valutarne la composizione. «Il governo scozzese -precisa la relatrice- propone di cambiare totalmente l’assetto costituzionale precedente, con una costituzione scritta basata sulle best practices degli altri Paesi, che includa diritti socioeconomici, temi ambientali, controlli sull’uso del potere militare. Si valutano anche i legami da mantenere con le altre parti del Regno Unito. Taluni vorrebbero che la Scozia rimanesse nel Commonwealth, con la Regina come capo di Stato. Si valuta se creare un’unione monetaria, una “unione sociale” e una serie di collaborazioni su varie politiche, specie rispetto alle aree di confine. Gli scozzesi non farebbero più parte delle istituzioni inglese, come il parlamento e le corti inglesi, però si costruirebbero nuove relazioni nei temi di interesse comune, su una base legale diversa». Naturalmente il mantenimento di tali legami dipende dal governo inglese, che finora ha invece minacciato di limitare tali ambiti, ad esempio escludendo la Scozia dall’utilizzo della sterlina. Se poi il voto desse come risultato una risposta negativa al quesito referendario, i partiti unionisti hanno proposto ulteriori forme di devolution per non dare l’impressione che un voto negativo comporti il mero mantenimento dello status quo. Ciò dipenderà però anche dall’approccio del governo inglese nei prossimi anni, resta quindi una certa incertezza sui cambiamenti che avverranno in futuro».

Sara Parolari ha poi illustrato come, fin dagli anni Settanta, il referendum inteso come strumento di democrazia diretta abbia inciso sempre più nella materia costituzionale del Regno Unito, mentre prima si riteneva che la democrazia si limitasse all’aspetto rappresentativo. «La democrazia diretta è considerata dal 1975 complementare alla democrazia rappresentativa pura. Nel sistema britannico non esistono però regole uniformi sul tema, mancando una costituzione scritta. La prassi ha visto casi di referendum sia prelegislativi che postlegislativi, con diverse basi elettorali, anche in materia costituzionale. I cittadini non possono chiedere l’emanazione del referendum, che è uno strumento del governo, il quale decide anche il quesito proposto». Ecco allora che questo strumento andrebbe reso maggiormente democratico e attuale, ad esempio includendo elementi di democrazia partecipativa all’interno del procedimento referendario. La Scozia ha già sperimentato a livello locale strumenti di questo tipo ed il rapporto fra governo scozzese e inglese è basato su un maggiore coinvolgimento dei cittadini.

Josep Maria Castellà Andreu, dell’Università di Barcellona, ha posto l’accento su quale referendum “costituzionalmente conforme” sia possibile nel complesso scenario della secessione catalana. L’esperienza catalana, alla luce del diritto costituzionale spagnolo, è un tema particolarmente spinoso.« Secessione e costituzione hanno un rapporto molto problematico –esordisce Castellà Andreu- Democrazia e diritto a decidere vengono fortemente interrogati dalla possibilità di una secessione, che si sta concretizzando negli ultimi tre anni. L’esperienza catalana ha prodotto risultati molto modesti, in quanto la riforma statutaria della comunità autonomia della Catalogna è stata ridotta in modo notevole dall’interpretazione giurisprudenziale nel 2010, accendendo quindi le istanze indipendentiste. Apparentemente la secessione scappa dal diritto costituzionale positivo spagnolo, per cui bisogna trovare le ragioni che si basano su una doppia necessità di legittimazione: la legittimazione democratica è necessaria ma non sufficiente, perché occorre anche la ricerca di strumenti costituzionali che consentano di inquadrare queste vicende». Secondo il relatore, sorge una questione ambivalente, priva di soluzioni univoche. In altre parole, cosa si vuole fare: referendum, secessione in senso classico o rafforzamento dell’autogoverno? La domanda di autonomia mira a una maggiore democrazia, ad una maggiore efficacia delle istituzioni e alla preservazione delle istanze culturali e linguistiche. «L’autonomia attuale ha fallito nel rispondere a tali istanze, per questo si mira all’indipendenza. Si incontra una terza domanda che giustifica la secessione: la divisione del potere per la difesa della libertà. Sul piano giuridico, ci si basa su un diritto a decidere che si manifesta in cinque forme: la riforma costituzionale è quella più chiara ma anche più difficile da percorrere perché la maggioranza spagnola non può favorire istanze minoritarie come quelle catalane; due forme che passano da Madrid sono, rispettivamente, la riforma del referendum nazionale per includervi la possibilità di un referendum nazionale e poi la possibilità -recentemente negata- di una delega alla comunità autonoma a proclamare un referendum, poi vi sono altre forme interne catalane come una legge interna di recente impugnata e annullata dal tribunale costituzionale (…) Tutte queste vie non sono unilaterali, non dipendono solo dalle istituzioni catalane, passano sempre dallo Stato. Un’ultima possibilità sarebbero quelle delle elezioni plebiscitarie: l’elezione regionale sarebbe letto come plebiscito a favore dell’indipendenza, per cui il parlamento poi dichiarerebbe unilateralmente l’indipendenza». Ogni via pone problemi di ordine costituzionale.

La questione secessionista catalana è sempre stata respinta senza proposte alternative da parte dei partiti nazionali: il partito popolare pone la Costituzione come un muro che chiude ogni discorso salva l’eventualità di trattative su temi fiscali, mentre il partito socialista propone una riforma costituzionale per il federalismo. Il Tribunale Costituzionale è stato protagonista della questione catalana, come anche di quella basca, dato il limite posto dalla Costituzione spagnola. La sentenza 42/2014 sulla dichiarazione di sovranità del popolo catalano ha affermato che la secessione sarebbe incostituzionale, sebbene non ci siano limiti a una riforma costituzionale, che richiede però una grande maggioranza. Le istituzioni catalane avrebbero solo diritto di iniziativa per avviare questo lungo processo. Il diritto a decidere viene ammesso interpretativamente affermando che non è un vero e proprio diritto ma un’aspirazione a decidere e che si limita al diritto a discutere sull’iniziativa di riforma costituzionale, pur dovendo rispettare principi di libertà, democrazia, dialogo. Rispetto al passato, il Tribunale costituzionale persegue una politica più spiccatamente pacificatoria, ma la strada verso l’indipendenza si presenta ancora come lunga e difficile. «La democrazia è chiamata in ballo, ma quale democrazia? Ci si chiede se la secessione vada affrontata come tema mediante un referendum o tramite le istituzioni democratiche. Il referendum pone solo una risposta secca, sì/no, per esigenze di chiarezza, ma chiama a decidere tutta la popolazione su un argomento particolarmente importante. In Spagna è previsto solo un referendum consultivo, non esiste quello propositivo, per cui c’è da chiedersi se esso porterebbe a una riforma costituzionale o è un atto in sé costituzionale». Resta il fatto che le conseguenze del referendum sarebbero dirompenti. Si tratta di una decisione politica di rottura, che difficilmente trova legittimazione nella Costituzione: qua opererebbe un principio democratico radicale, senza base nella Costituzione. La questione non è tanto l’alternativa fra democrazia diretta e democrazia rappresentativa, ma quale democrazia costituzionale. Le nostre Costituzioni sono pluralistiche ma pongono il limite dell’integrazione politica, richiamano il principio di unità superiore alla pluralità. In conclusione, secondo il relatore: «Si può discutere la forma di stato e di governo, ma non lo Stato stesso. Questi principi di democrazia, di pluralità, di unità pongono una necessità di negoziazione che difficilmente può essere affrontata da un referendum».

Marco Carrillo, dell’Università Pompeu Fabra di Barcellona, è stato autore del primo dizionario catalano sul referendum catalano e sottolinea come, dopo la sentenza costituzionale del 2010, vi sia stata una forte crisi politica. Il fallimento dell’autogoverno è emerso recentemente in Catalogna così come nei Paesi Baschi. «L’autonomia territoriale dovrebbe garantire le competenze di tutte le comunità autonome –afferma Carrillo- tuttavia il governo spagnolo ha sempre ridotto le possibilità di autonomia politica previste dalla Costituzione del 1978. Nel 2006 in Catalogna è stato approvato un nuovo statuto che significava un nuovo patto di adesione alla Spagna, ma è stato presto impugnato dal partito popolare e da altre comunità autonome. Successivamente, nel 2010, è stata completamente neutralizzata la valenza riformatrice dello statuto. Sul piano giuridico la sentenza del Tribunale costituzionale ha inciso integralmente sul contenuto dello statuto, ha dimenticato del tutto la sua approvazione, con maggioranza schiacciante, da parte del popolo catalano e non ha fornito argomentazioni giuridiche complete. Il nuovo statuto voleva garantire il sistema delle competenze garantite alla Catalogna, ma questo aspetto è stato trascurato». In breve; la Corte dimostra una forte diffidenza sulla riforma statutaria e vuole incidere in particolare su aspetti non giuridici ma politici, come il preambolo dello statuto. La sentenza afferma di essere interpretativa ma il suo effetto sostanziale è stato quello di abrogare gran parte delle sue norme più significative, ampliando enormemente le competenze statali.

Per quanto riguarda il piano politico della vicenda, Carrillo precisa: «I rapporti fra Catalogna e Spagna vanno evolvendo verso l’indipendenza, vista la maggioranza politica favorevole all’indipendenza nel parlamento catalano, ma il partito popolare ha respinto ogni via giuridica salvo la riforma costituzionale. Il governo spagnolo considera impossibile qualsiasi referendum anche solo consultivo su base regionale (…) Nella consultazione prevista per il 9 novembre di quest’anno, come nelle intenzioni, si pongono due quesiti: se rendere la Catalogna uno Stato e poi se esso deve essere indipendente. E’ molto incerto cosa potrà accadere dopo il referendum, dato che esiste già una maggioranza favorevole all’indipendenza. Sarebbe opportuna una negoziazione fra Spagna e Catalogna; il federalismo d’altra parte non rientra nella cultura spagnola, per cui sarebbe opportuna una riforma costituzionale che crei un rapporto asimmetrico con lo Stato».

Matteo Nicolini, dell’Università di Verona, guarda alla Catalogna come ad una fonte di interrogativi di natura costituzionale. Ci si chiede quale strumento di consultazione utilizzare e che peso ha una volontà popolare per l’indipendenza. «Quale compatibilità fra costituzione e diritto a decidere? –sottolinea Nicolini- Il rischio è che si accetti la secessione minando il progetto costituzionale di creazione di una società, smentendo così lo stesso testo costituzionale. Si ragiona come se dovessimo utilizzare un referendum come unica via verso la risoluzione del problema. Le Corti chiamate a valutare dell’atto di sovranità del diritto a decidere hanno difficoltà a riconoscerlo, considerandoli come atti non costituzionali».

Il cuore del problema è che la secessione è un fenomeno multidimensionale: politico-istituzionale e costituzionale. «Nel dibattito giuridico e politico spesso si danno alle elezioni plebiscitarie valenze diverse da quelle che gli sono proprie. Si attribuisce un valore costituzionale a un’elezione che rinnova soltanto la composizione di un organo. Molte Costituzioni vietano mutamenti anche perché partono parlando di Spagna, Italia, cioè realtà date come presupposto giuridico che porta ai limiti di riforma costituzionale. Bisogna prendere atto che non si è quello che si pensava di essere, ma che chi chiede la secessione è già fuori dalla vecchia realtà».

Guardandoci attorno in Europa, conclude il relatore, si scopre che vi sono altre situazioni simili. Ad esempio; il Belgio è politicamente confederale poiché vi sono due sistemi politici diversi che potrebbe concretizzarsi in una confederazione. Il caso basco ora va in questa direzione, c’è stata una dichiarazione del parlamento basco di autodeterminazione che non parla di secessione ma che apre a varie vie di riforma. In Catalogna bisogna vedere chi sarà più forte fra i partiti spagnoli e quelli catalani.

Francesco Palermo, dell’Università di Verona, evidenzia a sua volta come questi dibattiti rimettano in discussione alcune categorie tradizionali del diritto costituzionale. «Il ruolo cruciale è quello delle corti, soprattutto nel caso catalano e negli ordinamenti diversi da quello inglese, dove vi è una costituzione politica con un ruolo marginale delle corti. Una Costituzione giurisdizionalizzata protegge invece l’elemento fondante del patto costituzionale, portando al mantenimento dell’unità statuale. Il passaggio è quello fra democrazia formale e democrazia di rottura: solo con una rottura costituzionale è possibile rompere un patto politico e crearne un altro (…) In ogni caso c’è sempre spazio per le trattative: anche laddove si passi per vie giuridiche, l’unica possibile risposta ad esigenze di indipendenza o maggiore autonomia è il negoziato. Questi elementi di politicità emergono anche nelle costituzioni scritte, l’alternativa è l’uso della forza, per cui anche in un contesto di illegittimità costituzionale la necessità di mantenere la legittimità obbliga al negoziato a chi fuoriesce dal quadro». Il referendum in realtà è una tappa di un processo, che non si riduce ad un sì o ad un no, secondo il relatore. I momenti referendari sono unici ma acquisiscono valenza giuridica solo se inseriti in una vicenda. In genere la comparazione fra le diverse esperienze di referendum per l’indipendenza non è usata come argomentazione dai relativi promotori, preferendo rimarcare l’autonomia del proprio percorso sia per motivi politici che giuridici.

Marina Calamo Specchia -Università di Bari Aldo Moro- ha poi affrontato il tema della cittadinanza etnolinguistica come elemento basilare delle spinte secessionistiche. «Viviamo oggi in contesti multiculturali nei quali va destrutturandosi il concetto di nazione, che è intrinsecamente eterogeneo ma che in passato veniva quantomeno a centrarsi su un’identità prevalente. Col tempo tuttavia sono riemerse le etnie sommerse, cioè quei gruppi accomunati da una lingua, da una storia e da un territorio specifici, in cui l’identità comune dà fondamento a richieste di maggiore autonomia all’interno di uno Stato. Queste spinte sono in genere progressive, per cui si possono incanalare nella via giuridica del federalismo oppure in una fase più avanzata nella formazione di una nuova entità statuale. Il federalismo attenua meglio le conflittualità presenti, mentre la via politica dell’indipendenza mediante referendum è una scelta molto forte. Infatti il referendum scozzese e quello catalano sono il culmine di varie tappe di un processo devolutivo, con maggiori difficoltà nel secondo caso per la necessità di una modifica costituzionale o di un atto di esercizio del potere costituente, con la creazione di una nuovo Stato». Le corti costituzionali a loro volta si richiamano all’unità dello Stato per impedire rivendicazioni di una parte del popolo, arrogandosi il potere di decidere su una questione così importante al posto dei cittadini. In conclusione, secondo la relatrice: «Una soluzione molto interessante in questi casi potrebbe essere una confederazione, così da avere la più ampia devoluzione dei poteri».

Giovanni Poggeschi, Università del Salento, ha rimarcato che il referendum è uno strumento della democrazia ma non è l’unico e non è sempre il più valido, dato che non può essere usato per la soluzione di tutte le questioni tecniche. «Le negoziazioni sono un momento sempre necessario in ogni vicenda politica. Anche ove i referendum in Scozia e Catalogna dessero la vittoria al Sì, lo status futuro di quei territori andrà comunque negoziato con gli Stati. In quel momento, però, sarà certamente tardi per ogni soluzione alternativa come un maggiore federalismo». Del resto bisogna ricordare che il principio di integrità territoriale degli Stati è sacrosanto ma è al contempo relativo, dato che gli Stati molte volte nella loro storia hanno cambiato forma. «Non ci si può aspettare però che simili vicende si compiano in modo pacifico –continua Poggeschi- Anche per la Scozia non sarà facile dialogare col Regno Unito una volta approvato il referendum. Una secessione, per quanto pacifica e negoziata, comporta sempre un salto nel buio dato che non si conoscono del tutto gli scenari futuri del Paese che va nascendo. Il diritto deve far sì che venga evitata ogni violenza e che prevalga il dialogo fra le parti in queste vicende che, di fatto, sono politiche e non giuridiche».

Claudio Martinelli, Università di Milano Bicocca, ha osservato che le vicende della Scozia e della Catalogna costituiscono due laboratori dell’indipendenza per due tipi di ordinamento diversi, nei quali la negoziazione avviene in modo differente, arrivando le forme giuridiche per ultime a cristallizzare quanto convenuto. «Nel Regno Unito una politica governativa improntata al fair play ha consentito lo svolgimento del referendum, che è il nodo centrale fra due momenti negoziali, quello di individuazione delle condizioni di indizione del referendum e quello che seguirà al voto. In Catalogna, invece, il quadro è molto diverso: qualunque situazione giuridica o politica verrà trovata sarà comunque extra ordinem, un atto costituente, anche in caso di revisione totale della Costituzione spagnola». Un discorso totalmente diverso è quello sull’opportunità della scelta dell’indipendenza, ma sarebbe grave se l’unica via aperta alla soluzione delle problematiche in campo fosse l’uso della forza: ci deve essere sempre la possibilità del negoziato.

Alessandro Torre, Università di Bari Aldo Moro, ritiene che nell’Unione Europea non si possa più parlare di secessione come rottura immediata dell’unità nazionale. «Oggi l’unica soluzione praticabile sarebbe quella della consultazione e negoziazione -afferma- Non si vuole negare il principio di autodeterminazione dei popoli, ma il percorso democratico aiuta a raggiungere nuovi equilibri interni agli Stati senza violare la Costituzione. Gli Stati dell’Unione Europea non opprimono i popoli che li compongono, ma i processi di revisione degli equilibri sono necessariamente lenti e molto delicati, non può bastare un colpo secco come con un referendum. Senza essere statalisti si può ritenere che i secessionismi nell’Unione Europea sarebbero ormai superati».

Ai posteri l’ardua sentenza.

Enrico Vanzo

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