Stavolta si è spostato di ottant'anni indietro, dall'Europa è tornato alla sua America e ha preso lo schiavismo come altra aberrazione storica da ribaltare. In Django Unchained prende per il culo il KKK, traveste il nero liberato da pappone, individua in un vecchio negro il suo peggior nemico, mette a nudo l'incertezza storica del popolo di colore - che impara il valore della libertà dai bianchi, che prende l'iniziativa quando è tardi - e la colpa impossibile da mondare dei bianchi, che non sopravvivono al mondo al contrario e si ammazzano fra loro.
Peccato, però, che se in Bastardi senza gloria il cinema era un gioco da tavola in cui Tarantino coinvolgeva la sua stessa ingordigia citazionista, questa volta si siano fatti due passi indietro, e il cinema, invece di camminare con le proprie gambe, invece di prendere la Storia per le corna e spararle in faccia, è tornato a essere una macchina ingombrante poco consapevole della propria pesantezza, non tanto citata quanto rimescolata, triturata, con dialoghi infiniti, scoppi di ultraviolenza, battute fulminanti ma largamente attese a sorreggere il gioco fin troppo noto della parodia serissima che smaschera l'ingloriosa storia di una nazione fondata sul sangue dei neri, prima ancora che su quello dei propri figli (la didascalia dice infatti che siamo negli anni precedenti la Guerra civile).
Tarantino sa cosa vuol dire fare un film ludico e insieme teorico, sa come imbastire una riflessione sul ruolo del cinema nel mondo e sul piacere immediato che si può ricavarne. Ma la sua idea di postmoderno inteso come pastiche di immaginari, ricordi e genialate non regge, non diverte e odora di mobilia vecchia almeno di un decennio.