Viola, già autore con Cristiano de Majo di uno dei libri più interessanti degli ultimi anni, la raccolta di reportage – genere poco praticato nel nostro Paese – Italia 2 (minimum fax, 2008), con questo secondo romanzo – segue Gli intervistatori (Ponte alle Grazie, 2010) – si conferma voce originale e profonda nel panorama letterario italiano.
Dietro l’accattivante e colorata copertina di Maurizio Ceccato si cela una lettura impegnativa, che attira in un gorgo a tratti angosciante. Non diremo qui la trama, neanche conta, non è la linearità di una storia che l’autore intende raccontare, quanto piuttosto lo smarrimento del protagonista, la sua incapacità di desiderare. Con ciò riuscendo a delineare un romanzo “generazionale”, molto più acuto di quelli programmaticamente tali, infarciti di trentenni precari e/o irresponsabili: «vivevamo con un senso di malinconia precoce, immobilizzati dalla futura assenza dell’altro e incapaci di muoverci e parlarne per scongiurarla, anche perché non lo volevamo davvero» e ancora, in un altro intenso passaggio, «mancava solo l’imbrunire all’orizzonte. Ma l’imbrunire ce l’avevamo dentro noi, e quello struggimento sordo e muto era la nostra fibra, Elisa e io eravamo il nostro tramonto».
Il protagonista, Ennio, borghese romano, benestante che non ha mai avuto problemi economici, ma non sa esattamente cosa vuole – «io non voglio tutto, sei tu che non vuoi niente», gli viene detto a un certo punto del racconto –, si reca in Giappone alla ricerca dell’ex fidanzata Elisa, scomparsa senza dare notizie di sé. Il Giappone del romanzo non è quello “orientalista” che potremmo aspettarci, è un Giappone senza Giapponesi, in cui Ennio, che ha iniziato a lavorare nella stessa scuola multimediale di Osaka in cui insegnava Elisa sperando di trovarla, interagisce quasi solo con altri stranieri come lui. Il Paese asiatico è lo sfondo straniante su cui lui si muove senza particolare interesse per esso, ma è anche quello del catastrofico terremoto del 2011, cui sono dedicate alcune intense pagine del romanzo. Man mano che la sua ricerca va avanti Ennio perde di vista l’obiettivo, si trova a riflettere sulla sua ossessione, sul suo rapporto con l’ex fidanzata e sull’amore, sul bisogno d’amore, tema centrale del romanzo, per arrivare alla conclusione che esso è assenza, è «scomposizione, sparizione, il contrario della vita fatta di cose e forme»; per Ennio sarebbe auspicabile raggiungere il «grado zero dell’esperienza umana», per cui «sarebbe bello se l’amore fosse questa cosa qui, tutta increspature di superficie, senza traumi e lampi e menate tipo la “stima”, il “dialogo”, il “progetto”, i “caratteri” eccetera». Più va avanti e più Ennio si rende conto che la realtà, forse, non è come lui pensava, ma una sua invenzione. Nei racconti che fa e si fa, negli altri personaggi che lui stesso “inventa” e addirittura di cui anticipa le mosse, raccontandone ad altri o scrivendone; perché tutto il romanzo di Viola è anche una riflessione sul potere della scrittura, sulla sua capacità creativa: il libro è costellato di mail che Ennio invia ai suoi familiari, a Elisa, ai suoi amici, addirittura a se stesso, poi il diario di una studentessa di Elisa attraverso cui lui conosce alcuni episodi della vita di lei in Giappone, un costruire storie e descrizioni che scivolano dalla realtà alla fantasia e viceversa, in un continuo e sapiente alternarsi di prolessi e analessi, di eventi accaduti e di ricordi deformanti («Non mi farai diventare il tuo ricordo, va bene? La mia vita è mia. Non puoi conservarmi come mi ricordi tu quando stavamo insieme.»«Tu non sei un ricordo.» «Per te sì. Non voglio esserlo.»).
Non interessa qui raccontare come va a finire la storia, se di fine si può parlare, non è quello che importa all’autore e nemmeno a noi lettori; in un vecchio romanzo di Tournier il protagonista a un certo punto diceva: «Quello che ci è mancato è una casa di parole in cui abitare insieme».
Viola dimostra tutta l’abilità che ha nel costruire case di parole e nel mostrare quanto esse possano diventare prigioni. La realtà è impossibile da raccontare, ma non ci rimane altro da fare.
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