spartaco - terza parte

Da Foscasensi @foscasensi
Gioele, solo, nuotava con gli occhi nella stanza. Fuori la sera punteggiava fuochi e schiamazzi per la festa del solstizio. Nel medesimo modo e per il resto, fuori  c'era un odore che non si poteva sopportare, che soffiava e impregnava tutto, che invecchiava, spolpava e tirava avanti. Era l'aria che portava il seme di dio. Gioele prese dell'aria nelle labbra e la tossì, alzò una mano, forse cercò dell'acqua, infine il corpo distese sul letto e restò immobile. Era morto.
 
Cosa aveva provato Gioele. Sentiva gli occhi leggeri, una mano stringere la collottola e i nervi ritirarsi in un punto e il punto rimpicciolire. E poi tutto mescolarsi, tutto si era mescolato e le cose erano cambiate ancora e aveva iniziato a sapere, da morto, la parte della più superficiale scorza del mondo.
 
Solo dopo molto, quando la notte aveva raggiunto la massima distanza dal giorno, la porta si era aperta e Gisela doveva aver cacciato Spartaco che doveva aver abbaiato al corpo già impercettibilmente corrotto, ma che nessuno sospettava fosse così morto, perché era normale che Gioele stesse dormendo. Così tutti dovevano essersi addormentati intorno al suo corpo morto, mentre dei loro corpi vivi ora appariva la fermentazione e la serie di cavità liquide proprio nell'ordine stabilito dalla sopravvivenza. Appariva il succo e l'inacidimento delle digestioni e le bolle d'aria batteriche proprie del nutrimento, dal momento che un corpo tiene in ostaggio acqua e sostanza minerale per lasciarsi bruciare in modo infinitamente composto, in modo infinitamente paradossale da stare perfino bene ad ogni boccata di ossigeno. Le pance di Gisela e Claudine dovevano essere state tese, dovevano aver barcollato intorno al giaciglio, dovevano aver sfiorato la paglia con la punta dei piedi, aver denudato prima i sederi e le gambe, di malagrazia, aver cercato un pitale o una pentola di coccio, aver abbandonato il resto dei panni e se stesse sui grandi lenzuoli di lino, aver riso e biascicato finché non si fossero sentite tranquille, che la metà più terribile della notte era passata e ci si poteva abbandonare al mattino.
 
Ranieri invece doveva essersi accoccolato sulla soglia, doveva aver vomitato, perché nell'aia doveva esserci un vischio acido e sconvolto di stomaco maschile. E Spartaco doveva aver abbaiato ancora sui piedi e le ginocchia di Gioele, doveva aver cercato le mani e il naso, doveva aver morsicato la paglia e ululato e urlato. E Ranieri doveva aver provato un tamburellare doloroso di capo, il pelame ispido sulle natiche e le cosce di uomo e il fiato guasto, e doveva aver gridato e doveva essersi buttato in casa. E doveva aver trovato Spartaco con una gran pelliccia nera e un filo di schiuma appeso alle labbra, e doveva averlo colpito e Spartaco doveva avergli morsicato una gamba quando aveva cercato di tirare un calcio al giaciglio e Ranieri doveva aver tirato fuori un coltello e doveva averlo piantato nel petto di Spartaco, e poi doveva essersi addormentato con lui, finalmente, addosso al corpo umido del suo cane silenzioso.
 
Così doveva essere andata. Là dov'era adesso, Gioele sentì uno scricchiolio, una lama e una conchiglia d'ossa schiantata per sempre. Poi non ci fu più nulla.