[Articolo pubblicato nella Webzine Sul Romanzo n. 2/2013, La difficoltà dell'inizio. Il coraggio del primo passo]
La parola esordio significa letteralmente cominciamento, inizio di o da qualcosa. Dunque, introduce a un’idea di continuità, di lunga durata, di carriera, se vogliamo. Torna giusto provare ad esplorare la natura degli esordi editoriali di chi, non provenendo dalle lettere – com’è, invece, sempre stato per chi dall’esordio è diventato, poi, persona di scrittura –, ma da quella stramba dimensione della società italiana che si chiama show business, si cimenta con la narrativa o altre scritture, inondando il mercato di cianfrusaglie o aberrazioni dello spirito, di orpelli della cultura che assomigliano, per inutilità e frivolezza, alle variopinte cover degli smartphone, con l’aggravante che, spesso, queste belle cover diventano motori di un nuovo senso negli affetti, nelle opinioni, perfino nei comportamenti degli italiani, come gli smile nella chat di Facebook o negli sms, o ancora come i lucchetti di Moccia attaccati a un palo su un ponte romano. Comportamenti che alludono a una specie di mistica quanto banale immedesimazione di massa nelle idee dei Vip prestati alle lettere: qualcosa di aberrante che, prima o poi, qualcuno dovrà pur prendersi la briga di redarguire energicamente.
La sottocultura inquietante
Uno degli aspetti più inquietanti dell’offerta culturale italiana, e in specie di quella editoriale, è il passaggio semplice e senza soluzione di continuità di personaggi dal mondo dello show business a quello della scrittura. Non parlo della divulgazione scientifica, che ha visto, per esempio, Piero Angela riportare più o meno fedelmente il suo Quark in non poche pubblicazioni, ma faccio riferimento alla messe di operazioni editoriali che tramutano il Vip in narratore, dispensatore di ricette e consigli per la vita, autobiografo in interviste e/o agiografie dal sapore neoeroico. In Italia, abbiamo quello strano caso di travaso di in-competenze che è segno di una sostanziale considerazione dell’editoria come di una sorta di vaso capillare che può ospitare tutto quello che può essere venduto ovunque e per chiunque. Il primato della televisione generalista ha svilito i contenuti macerandoli nel piattume stringato degli slogan – qualcosa che nasce prima del berlusconismo e che, ora, impera nei palinsesti – e delle battute, di cui sono infarcite numerose quanto imbecilli opere di narrativa. Le operazioni romanzesche di Fabio Volo, per esempio, sono il segnale di un’inequivocabile ricerca di ricette per cuori mal cresciuti, coccolati dal volgere facile dei giorni verso il declino degli affetti profondi, assopiti in un quotidiano spiaccicato sulla crosta fantasmagorica – ma noiosa – della televisione e/o della radio. Lo stesso vale per la vuota opera narrativa di Luciano Ligabue e per le agiografie dei calciatori – da Cassano a Paolo Rossi –, nelle quali si trova un condensato posticcio del nulla, qualcosa che vorrebbe avere il senso dell’epopea, ma scivola nella battuta, nell’autocelebrazione, nel più incongruo approccio al racconto o al racconto di sé. Per non parlare dei ricettari di cucina, scritti da qualunque presentatrice nazionale, che mortificano il senso del gusto, esaltando le caserecce mediocrità dei fornelli a detrimento di ben più alte edizioni di arte culinaria che, negli anni Settanta e Ottanta, per esempio, hanno occupato le biblioteche delle donne italiane perfino sotto forma di enciclopedie della cucina.
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