“Speaking in Tongues“. Vorrei dire un capolavoro e non aggiungere altro.
La trama: in scena due coppie. Si trata di Leon e Jane e di Pete con Sonja. Sono in una squallida stanza d’albergo, separati ma in contemporanea, a rispecchiarsi gli uni negli altri, a parlare in coppia o a completarsi le frasi l’un l’altro, uomini e uomini, donne e donne, o Pete con Jane e Leon con Sonja. Una coppia consumerà, l’altra (quella in cui l’uomo è più debole), no. Ovvimente Sonja è la moglie di Leon e Jane di Pete. I due fedifraghi sono scoperti dai rispettivi coniugi, che se ne vanno di casa.
Quindi Pete conosce Leon (che, capendo chi è, gli mente sulla sua identità) e Jane incontra Sonja (che la scopre). Anche in queste due scene gli specchi e i rimandi tra le due donne, i due uomini e i componenti delle due coppie sono continui. I personaggi si tratteggiano con poco, e restano coerenti a loro stessi senza diventare macchiette.
Quindi ci sono quasi due monologhi: Leon racconta a Sonja – che lo ha ripreso con sè – la storia dell’uomo con cui si è scontrato, e che forse si è ucciso per amore; Jane racconta a Pete – che ha deciso di fare un figlio – di sospettare che il vicino di casa sia responsabile della morte di una psicologa scomparsa sere prima.
Concluso il doveroso riassunto della trama, è chiaro come siano continui i rimadi a specchio e come la riflessione non sia solo il tradimento e il ruolo dell’identità, mascherati sotto un thriller. Il tema è la solitudine, la manipolazione, la fiducia (che nel matrimonio c’è o non c’è) il come i componenti di una coppia si influenzino l’un l’altro, facendo diventare ciascuno l’immagine che ne hanno. Il tutto viene descritto con grande umanità.
Il recitare ciascuno due personaggi (nel caso di Nicola Caruso, tre) mette in evidenza le capacità istrioniche e camaleontiche degli attori in scena: Giacomo Rabbi è Leon, il poloziotto macho, ma anche Mark, l’uomo distrutto dalle delusioni; Margherita Remotti (ma quanto assomiglia a Sandra Bullock?) è l’assertiva Sonja e Sarah, una donna davvero inquietante e con il cuore di ghiaccio. Infine, Laura Anzani è la fragile, passiva Jane e l’isterica Valerie (Caruso è ovviamente il passivo Pete, l’ossessivo Neal e lo sfuggente John). Dal
Chi scrive, al Teatro Libero (lo spettacolo è in scena sino al 14 marzo) di Milano si è emozionata ed è stata rapita dalla storia. Dalla precisione con cui i quattro nella prima scena parlano tutti assieme o a coppie o si alternano risultando chiari, coincisi, coordinati, impeccabili. Come le coppie abbiano una loro coerenza e un’identità. Come nel secondo atto quattro personaggi monologhino contemporaneramente in scena, anche in questo caso con chiarezza e pulizia.
Catturata dalle espressioni, fuggevoli e intense, che attraversano i volti, in particolare quello di Anzani e gli occhi lucidi di Remotti (sì, le due attrici sono più brave, seppur di non troppo, dei colleghi). Dalla precisione attoriale e dall’intelligenza del testo, e non può far altro che caldamente raccomandare la visione dello spettacolo, sino al 14 marzo.
Written by Silvia Tozzi