Specchi, spilloni e gioielli. La toeletta della donna romana

Creato il 29 marzo 2015 da Vesuviolive

Ma che l’amante non vi colga mai con i vasetti delle vostre creme. L’arte che vi fa belle sia segreta. Chi non vi schiferebbe nel vedervi la faccia cosparsa per tutto il viso, quando vi scorre e sgocciola pesante tra i due tiepidi seni? E che fetore l’esipo emana, rozza spremitura del vello immondo di un caprone, fetido anche se viene da Atene! E non vi approvo quando v’applicate in pubblico misture di midollo di cerva o vi fregate davanti a tutti i denti. Queste cure fanno belle, ma son brutte a vedersi. Spesso ciò che ci piace, piace quando è fatto, mentre si fa dispiace.” (Ovidio, Ars amatoria, 209-218).

Per la matrona romana il momento della toeletta era un vero e proprio rito, un’arte da custodire segreta. Generalmente la donna nobile romana non aveva altro impegno che farsi bella, oltre a saper filare la lana, simbolo del suo status sociale. Al suo servizio c’era una squadra di “fantesche”, da schiave bambine a schiave anziane adibite alla cura e all’amministrazione della casa.

Le matrone avevano a disposizione catini, specchi di rame, d’argento o di vetro ricoperto di piombo e potevano disporre di una personale vasca da bagno (lavatio) facendo così a meno dei bagni pubblici. La matrona andava a dormire vestita con il perizoma, la fascia del seno (strophiummamillare) o la guaina (capetium) con una o più tuniche e, se particolarmente freddolosa, addirittura con il mantello, una volta sveglia metteva i piedi nudi sul tappeto (toral) che faceva da scendiletto e dopo essersi lavata, indossava l’amictus. Particolare attenzione va rivolta a queste particolari fasce per sostenere il seno, che Ovidio suggeriva di imbottire qualora non fosse abbastanza prosperoso. Si ritrova anche in moltissime rappresentazioni delle pitture erotiche del lupanare di Pompei, ma questi reggiseni venivano indossati dalle matrone per esercizi ginnici o per fare un bagno in piscina. Il bikini, dunque, è stato inventato dai romani!

Abbigliamento della matrona romana (da “Una giornata nell’antica Roma”)

Si adornava con pettini, spille (fibulae), unguenti e preziosi gioielli. Ma l’azione più importante e complessa era sicuramente l’acconciatura dei capelli.  In epoca repubblicana questa era molto semplice, con i capelli legati dietro la nuca oppure raccolti in trecce girate sulla fronte. Ma è con l’età imperiale che le acconciature si fecero sempre più articolate e pompose. Al tempo dei Flavi (I secolo d.C), le donne usavano acconciare i capelli con complicatissimi riccioli arrivando a creare delle vere e proprie impalcature di capelli sulla testa al tempo di Traiano (II secolo d.C.). Sembra infatti che tali acconciature monumentali avessero lo scopo di aumentare l’altezza e la visibilità delle donne di bassa statura. Le acconciature delle “first lady“, ovvero le mogli degli imperatori, erano un po’ come quelle delle moderne dive di Hollywood o del Jet Set: dettavano moda. Ogni donna nobile dell’Impero faceva a gara per avere l’acconciatura alla “Ottavia” (dalla sorella dell’imperatore Augusto) o alla “Plotina” (la moglie di Traiano), un elemento questo prezioso per gli studiosi in quanto permette loro la datazione dei ritratti.

Busto di Plotina, moglie di Traiano (II sec. d.C.)

Si ricorreva anche all’uso di tinture, sia per le parrucche che per i capelli veri, utilizzando minerali derivanti dall’antimonio nero, unito a grassi animali. Il rosso si otteneva con l’hennè, mentre di origine gallica era la pozione che rendeva bionde le chiome, ricavata da grasso di capra e cenere di faggio. Mentre i colori particolari come il turchino o il rosso carota erano appannaggio delle meretrici.

Servizio toeletta da Pompei conservato al Museo Archeologico di Napoli

Le serve pettinatrici (ornatrices) correvano il rischio molto frequente di essere duramente punite se l’acconciatura non soddisfaceva la signora. Mentre erano più fortunate quelle parrucchiere che rimediavano alla calvizie della padrona con posticci e parrucche, bionde o nere, come quelli di capelli veri fatti venire dall’India. L’ornatrix però, si occupava anche della depilazione e del trucco della signora. Mentre la maschera faceva il suo effetto, si procedeva alla depilazione, perché una donna affascinante doveva avere un corpo in cui non fossero presenti “ispidi peli pungenti“, come lo stesso Plinio il Vecchio ricorda. Si ricorreva all’uso di cerette depilatorie e creme: il “psilothrum” e il “dropax” erano composti a base di pece greca, resina, cere e sostanze caustiche, disciolte nell’olio. Inoltre si ricorreva alle pinzette, chiamate “valsellae“, di solito in metallo, ma ritrovate anche in oro ed argento. Finita questa parte della preparazione si poteva passare al trucco: di bianco sulla fronte e sulle braccia con gesso e biacca, di rosso sulle gote e sulle labbra, con ocra o feccia di vino, di nero con fuliggine sulle ciglia e intorno agli occhi.

Bottigliette e fiale in grande quantità erano custodite nell’armadio della camera da letto e venivano disposte su un tavolino assieme alla polvere di corno con cui si lavava i denti. Infine un piccolo neo dipinto sull’angolo della guancia ed una spruzzatina di lustrini sulla pelle per farla risplendere. Tocco di classe era il profumo: come il Rhodium, l’essenza derivata dai petali di rosa, l’Illirium e il Susinum ottenuti con varie specie di gigli pompeiani, il Mirtum-laurum dal lauro e dal mirto, il Melinon dalle mele cotogne, lo Iasminum dal gelsomino. Le essenze raggiungevano prezzi esorbitanti già dal I secolo d.C., quando una libbra di profumo costava anche più di 400 denari.

Armilla a corpo di serpente I secolo d.C. Oro e pasta vitrea verde. Da Pompei, Casa del Fauno Napoli, Museo Archeologico Nazionale

La fase finale del belletto era dedicata ai gioielli. Nel periodo repubblicano qualsiasi tipo di lusso era vietato dalla legge, vivendo in una austerità di costumi ed usi. Ma più tardi i gioielli si fecero più pomposi. Gli orefici lavoravano su disegni greci ed etruschi, monili costituiti perlopiù da perle, rubini, smeraldi, diamanti, topazi, acque marine, pasta di vetro e ambra proveniente dal baltico. La ricchezza e l’importanza di una matrona si misurava anche dai gioielli, basti pensare alla terza moglie di Caligola, Lollia Paolina, la quale si presentò ad una manifestazione con svariati gioielli che dovevano avere un valore complessivo che si aggirava sui 4.000.000 di sesterzi, come ci racconta Plinio il Vecchio. I gioielli più usati nel mondo antico erano gli anelli, i bracciali, gli orecchini, le spille e le collane e dopo l’introduzione del culto della dea Iside, si usò spesso l’effige del serpente.

Oggetti e monili per far risaltare la bellezza femminile: ampolle per profumi, unguentari, orecchini, anelli, braccialetti, collane. Dagli scavi di Pompei. Napoli, Museo Archeologico Nazionale di Napoli.

A questo punto la signora era pronta per uscire, ma non era finita qui, in quanto il trucco era destinato a rovinarsi nel corso della giornata. Così i trucchi venivano inseriti in apposite cassette, in modo da seguire la matrona nei suoi spostamenti. Esso si faceva alla mattina, si rifaceva dopo le terme e si sfaceva a sera, prima di andare a letto.

BIBLIOGRAFIA:

Jérôme Carcopino, La vita quotidiana a Roma, Universale Laterza, Bari 1971; Aries e G. Duby, La vita privata , 5 vol., Editori Laterza, 2001; Andrea Giardina, L’uomo romano, «Economica Laterza», 1993; Andrea Giardina, Profili di storia antica e medievale.  1 Laterza Edizioni Scolastiche – 2005; Ugo Enrico Paoli,Vita romana – Oscar Mondadori, 2005; Alberto Angela, Una giornata nell’antica Roma. Vita quotidiana, segreti e curiosità, Rai Eri, Mondadori 2007; Virgili, Acconciature e maquillage , Serie ” Vita e costumi dei romani antichi” – edizioni Quasar – Collana promossa dal Museo della Civiltà Romana.


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