SPECIALE – I 70 Anni di Hayao Miyazaki

Creato il 05 gennaio 2012 da Dietrolequinte @DlqMagazine
Postato il gennaio 5, 2012 | CINEMA | Autore: Salvo Ricceri

Recensire o quantomeno provare a formulare una valutazione generica sulle opere di un autore considerato ormai un monumento vivente delle arti visive contemporanee è un’impresa che somiglia parecchio all’odierna tratta autostradale Messina-Palermo: rischia di crollare tutto prima ancora di chiudere il cantiere. Ed è a causa di (o grazie a quel) milione o più di pagine encomiastiche già in passato dedicate alla notevole statura artistica di Hayao Miyazaki che ho deciso di non recensire affatto un lavoro pluridecennale che (tralasciando la mia sostanziale inadeguatezza) si presenta ormai da sé come un libro sublimemente aperto, osannato tanto dalla più alta critica accademica quanto dalla più generica e volubile opinione del popolo. Queste righe si pongono piuttosto l’obiettivo di curiosare dietro i leitmotiv del regista e disegnatore nipponico, dietro l’ideologia che si cela nel cuore dell’universo animato portato in vita dalle fatiche dello Studio Ghibli, intorno insomma all’influsso e all’importanza generazionale che hanno rappresentato lo stile e il messaggio insito in opere come “Il mio vicino Totoro” (1988), “Il castello errante di Howl” (2004) o “La città incantata” (2001). Anche a rischio di sollevare analogie colpose o impropri accostamenti, vi confesso che nel mio immaginario cognitivo penso a Miyazaki come allo zio canuto e saggio che quasi tutti possono annoverare tra i parenti, quello che con espressione gioviale butta giù sempre la battuta giusta, non dice nulla se ti trova a spipacchiare di nascosto le prime sigarette o esageri nel versarti il vino a tavola, è benvoluto da tutti e sa sempre cosa regalare senza deludere. Per la critica, parlando in maniera molto più seria, egli si presenta come un ronin umile, profondo e perduto quanto basta per apparire familiarmente simpatico, un partigiano con la china a tracolla e nessun passaporto in tasca, con l’occhio (il terzo, quello migliore) puntato più sull’umanità genericamente intesa e sulla sua preservazione, che su schieramenti, barriere sociali o determinazioni economico-politiche: il legame simbiotico con una natura sofferente e compromessa, ravvisabile fin dalle animazioni a puntate prodotte negli anni della Toei e della Nippon Animation (sono suoi alcuni lungometraggi su Lupin III o la scenografia di Heidi, ad esempio), è infatti la pietra angolare di tutto il percorso creativo del Maestro, che si fa tramite e voce sonante di un ambientalismo ponderato, fine dei modi, nei concetti e nelle applicazioni, depurato dal misticismo effimero e superfluo della New Age generation, che ridona dignità alla biosfera tutta, alle armonie di fondo che la reggono in piedi, ai bisogni di una collettività non necessariamente antropocentrica che urla e si dispiega talvolta anche sotto gli abiti di una malvagità ancestrale, incombente, nera e violenta solo per riconquistare il diritto di esistere, di non essere sopraffatta o, peggio, eliminata.

Sono questi, ad esempio, i temi narrativi centrali di “Nausicaä della valle del vento“, dramma post-apocalittico del 1984 dove all’orrore per un olocausto atomico che ha già sconvolto gli equilibri di un futuristico ecosistema terrestre si intreccia il timore fondato di conflitti futuri in procinto di dispiegarsi, generati dalla pessima capacità umana di trarre insegnamenti dalle esperienze passate e dalla bramosia bellica capace di ripresentarsi, sempre vivida e intatta, lungo il corso del tempo. Il che richiama all’ormai noto antimilitarismo di Miyazaki, un antimilitarismo “militante” che vede nel conflitto il vero nemico dal quale, in ogni pellicola, la girandola di protagonisti ed antagonisti deve in fin dei conti proteggersi per conservare il tanto caro e agognato barlume di umanità: cito, come esempio emblematico, il film del 1992 (ma distribuito in italia “solo” nell’inverno del 2010) “Porco Rosso“. La storia parla di Marco Pagot, ex-aviatore della Grande Guerra, unico e disilluso sopravvissuto del proprio squadrone di combattimento, ghermito da una misteriosa maledizione che gli fa assumere le sembianze di un porcello antropomorfo che solca i cieli di un Adriatico da cartolina (epocali e minuziose le ricostruzioni ambientali dell’Istria in versione “Belle Époque”) col suo biplano rosso (da cui l’appellativo) dando la caccia ai temibili “pirati del mare” e fronteggiando da puro anarchico (nel senso più nobile del termine, fuori dalla simbologia contemporanea) la progressiva ascesa del regime fascista, che in questo lungometraggio si fa simbolo e metafora di ogni campo di guerra, di ogni bombardamento, di ogni tetro totalitarismo dogmatico e omologante della storia.

O, per illustrare più approfonditamente l’antimilitarismo di cui sopra, basta ricordare la guerra incalzante che mastica città intere radendole al suolo nel mondo magico e distopico di Sophie ne “Il castello errante di Howl”, favola contemporanea dove l’innovativa ed evoluta tecnologia del vapore si mescola ai minuziosi e numerosi elementi vittoriani che caratterizzano le scenografie e dove il mago Howl rifugge sistematicamente la chiamata alle armi, arginando al meglio col proprio renitente operato i terrificanti risvolti del conflitto. Mi chiedo quanto hanno imparato e quanto ancora avrebbero da imparare i pacifisti professi dei nostri tempi dal lavoro inossidabile di un giapponese ormai 70enne che, da un lontano oriente fatto di ortodossie religiose e rigidi schemi di convivenza comunitaria (fino a qualche decennio fa tanto arretrato in confronto alla vivacità occidentale da apparire quasi “un medioevo benestante”), ha saputo insegnare a milioni di giovani e meno giovani euro-americani, oltre all’eco-pacifismo già citato, il rispetto di valori ormai colpevolmente in decadenza come il rispetto per ogni diversità o minoranza (sia essa culturale o etnico-religiosa), il senso della fiducia reciproca, il disgusto per la prevaricazione filo-capitalista, l’indissolubilità dei legami umani e delle promesse, l’importanza dell’infanzia e del maturare.

E così, mentre i classici Disney ci mostravano principesse dormienti o, al più, rinchiuse nella clausura delle torri più alte in attesa del famigerato salvifico principe, indottrinandoci riguardo ad un male da rifuggire e fronteggiare insito nella totalità del reale, Miyazaki ci portava per mano in lande sconosciute dove ogni ideale sessantottino di emancipazione femminile veniva trasposto con chine e colori sulla pellicola, e la donna guadagnava quell’aura di peso, riverenza e sacralità che diventò poi la firma di tutti i suoi lavori. Fio Piccolo, la ragazza-meccanico che progetta l’aereo di “Porco Rosso”, diventa così l’emblema di un femminismo novecentesco fatto di diritti guadagnati a morsi e calci, di una progressiva emancipazione perseguita sotto il segno della produttività lavorativa che la rende identica se non migliore di qualsiasi ingegnere maschio, e che ne fa la cartina di tornasole per un sostanziale sconvolgimento degli obiettivi delle trame fino ad allora tracciate, ormai dotate di uno spessore ed una profondità narrativa decisamente notevoli. Lo stesso si può dire di personaggi come Gina nel film sopracitato, Sophie e Madame Suliman ne “Il castello errante di Howl”, Chihiro ne “La città incantata” (2001) o ancora la piccola Ponyo del recente “Ponyo sulla scogliera” (2008).

Pacifismo filo-ambientalista, neo-femminismo e, per finire, il precetto più grande di tutti, la legge zero incisa in ogni produzione Ghibli, ovvero la ferma convinzione che la vita sia una commistione di colori che non ammette agli estremi né il bianco, né il nero: non troveremo mai violenza o cattiveria gratuita, antagonisti che somigliano a marchette preconfezionate con l’unico obiettivo di annullare l’avversario o conquistare il mondo, ma violenza, rabbia e disperazione psicologicamente indagabili, nemici crudeli ma contemporaneamente fragili, sperduti, biasimabili. La temibile Strega delle Lande, dopotutto, non è che una donna sedotta e abbandonata, e il dio Nago in “Principessa Mononoke” (1997) impone il suo odio violento al villaggio di Ashitaka solo perché tradito e ferito dagli uomini. Il verbo di Miyazaki, insomma, parla chiaro: non vi sono eroi da elogiare né antagonisti da osteggiare, ed ogni dualismo tra male e bene si risolve nella finale, epica centralità dell’uomo su tutto, della fragilità del suo Io più intimo, di ciò che lo motiva ad amare o ad odiare con innocente ardore. Il 5 Gennaio 2012 il Maestro ha compiuto 70 anni esatti. Quanto avete appena letto è il nostro modo di ringraziarlo, di fargli un regalo, anche se, a mio parere, siamo stati noi a ricevere il presente più bello, uno di quelli che sanno fare solo gli zii saggi, canuti e familiarmente simpatici!



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