Tanto per cominciare dallo scontatissimo, io sono uno di quelli convinti che l’unica distinzione plausibile in narrativa sia tra libri belli e libri brutti, e che i generi servano unicamente per dividere i volumi sugli scaffali delle librerie. Detto questo, da lettore non ho mai capito il motivo per cui, raccontando di passioni, un amore, un’amicizia o qualsiasi altro sentimento debbano godere di maggior dignità in letteratura dell’odio, della gelosia o dell’invidia. La realtà è purtroppo pervasa da passioni negative, e se si raccontano storie che imitano o fanno riferimento alla realtà, queste devono muoversi sulle stesse direttrici.
Il pubblico dei lettori, del resto, tributa agli scrittori cosiddetti di genere un successo e un amore ormai consolidati. Le classifiche ne sono un evidente segnale. È per questo che sono particolarmente fiero del fatto che la giuria del Premio Viareggio abbia saputo, con sensibilità e intelligenza, superare un pregiudizio che fa torto alla cultura e all’emozione primaria che si deve a un’attività meravigliosa quale è la lettura.
La serialità è una strategia narrativa consolidata dal tempo, sia in letteratura che altrove, oltre a essere un modo diverso di presentare le proprie storie e i propri personaggi. In quale modo riesce a conservare quel tratto di originalità che pur deve mantenersi all'interno della serialità, per meglio rappresentare la particolarità di ogni storia?
Nel mio caso credo che l’ingrediente decisivo per mantenere una serialità coerente e allo stesso tempo gradevole sia l’assenza di ogni forma di pianificazione.
Quando si decide di raccontare una molteplicità di storie con gli stessi personaggi, si può scegliere tra mantenere invariati tempo e situazioni, lasciando le storie come in una bolla spazio-temporale, o far crescere, invecchiare, morire i propri personaggi guidandoli attraverso gli anni. La prima soluzione è più comoda perché lascia le singole storie autonome dalle altre, e rassicura i lettori che non troveranno cambiamenti decisivi nei personaggi che impareranno ad amare: è la via scelta, per esempio, da Simenon o dalla Christie.
Per quanto mi riguarda non ho avuto dubbi nello scegliere l’altra strada, quella del progressivo mutamento dei personaggi nel tempo. Sono il primo lettore di me stesso, e mi piace troppo mettermi a raccontare senza sapere quello che succederà ai personaggi, seguirne i pensieri e i cambiamenti, gli amori e le passioni. Mi piace assistere alle imperfezioni della loro vita, agli errori, ai piccoli trionfi, ai dolori e alle gioie. Cerco ovviamente di rendere le storie autonome, voglio fortemente che i lettori non siano costretti a leggere i precedenti per comprendere il romanzo che hanno scelto, ma voglio raccontare storie di esseri umani che comprendono, crescono e combattono con la vita.
Il commissario Ricciardi, protagonista di un ciclo iniziato nel 2006 e il cui ultimo romanzo, edito da Einaudi, è Vipera. Nessuna resurrezione per il commissario Ricciardi, è un uomo di legge piuttosto atipico. Quali altri commissari ci sono, dentro di lui? Quali sono stati i suoi riferimenti?
Non credo di aver avuto dei modelli, nell’inventare Ricciardi. Certo, io ho cominciato a scrivere in età piuttosto avanzata; immagino quindi che nella mia scrittura siano andati a finire centinaia di libri letti in passato, ma anche film, canzoni, opere liriche, sinfonie, quadri e amicizie, amori e antipatie.
Ho voluto in Ricciardi un uomo medio, non particolarmente dotato, non affascinante o intelligente, non atletico o abile nell’uso delle armi, non incline a godere dei piaceri della tavola o irresistibile per le donne che incontra; volevo solo che avesse un’acuta, spiccatissima percezione del dolore altrui. Che gli fosse impossibile voltare le spalle alla sofferenza, fregarsene del male che lo circonda. Il Fatto, la percezione soprannaturale del dolore estremo di chi lascia la vita con violenza per mano propria o altrui, non è altro che la metafora della compassione. La condivisione del dolore è la più forte, la più univoca delle motivazioni: non lo aiuta affatto nella ricerca del colpevole, anzi lo svia, lo distrae, perché il dolore porta via dalla coscienza; ma lo spinge a non mollare, ad andare avanti nella ricerca, nel tentativo di mettere a posto le cose almeno momentaneamente.
La sua percezione, che interpreta come una forma di follia, naturalmente lo porta lontano dalle amicizie e dagli amori perché non gli permette alcuna condivisione. Il dolore, proprio o altrui, porta solitudine.
Chi è Vipera, prostituta, protagonista, anche se in absentia, del suo romanzo?
Vipera è una donna, una ragazza ancora giovane che le circostanze, purtroppo abbastanza comuni nel suo tempo, hanno portato a esercitare la prostituzione. Ha due colpe gravi che la condannano a morte: è bellissima, e ha ricevuto una proposta di matrimonio.
La bellezza è una diversità, un marchio: bisogna potersela permettere, e nel 1932 più di quanto accada oggi stimolava passioni cieche e inconsulte. Vipera è notissima, il suo soprannome deriva dalla capacità di avvelenare il sangue di chi la guarda, genera un irresistibile desiderio di possesso; una donna così bella non può essere di un solo uomo, il suo incanto danna le anime. Per di più ha incontrato il suo primo fidanzato, un uomo che non l’ha mai dimenticata condannandosi alla solitudine e al lavoro, che ora che l’ha ritrovata non sopporta di perderla di nuovo, o che venda ancora il suo corpo, e vuole sposarla per ricostruire la vita che avevano perduto.
Attorno a Vipera, man mano che andavo incontrando i personaggi che avevano avuto a che fare con lei, mi sono reso conto che si sviluppavano passioni fortissime e che tutti avevano un ottimo motivo per volerla morta, sia se avesse accettato che se avesse rifiutato la proposta. Interesse, amore, gelosia, invidia, egoismo: sentimenti forti, e possibili moventi.
Attorno alle donne, purtroppo ancora ai giorni nostri, si sedimentano spesso passioni oscure che non sono immediatamente riconoscibili e che sovente vengono a galla quando ormai è troppo tardi per riconoscerle e combatterle.
Ritengo che sia proprio Vipera, che non compare nel romanzo se non come immagine dissolta e come vivido ricordo, la ragione del successo di questo romanzo. Una donna giovane, bella e disperata che non chiedeva altro che una seconda possibilità, che le era stata brutalmente negata nel sangue.
Volevo raccontare una storia che si svolgesse nella settimana che precede la Pasqua: il periodo più rigidamente penitenziale imposto dalla religione cattolica, quello delle privazioni, della preghiera, del silenzio e del digiuno. In contrasto con la prima settimana di primavera, quella del risveglio dei sensi e delle passioni, dei desideri e della carne. Il tutto in un periodo, i primi anni Trenta, che di per sé è epoca di contrasti e di contraddizioni.
Ho pensato quindi di ambientare la storia in un luogo socialmente interessantissimo, dove le passioni avevano libero sfogo e in cui storie personali difficili e dolorose si incontravano con gaudenti e fatui gentiluomini in cerca di divertimento sfrenato.
Il bordello, almeno questa tipologia ricca e raffinata, era una specie di circolo, un luogo dove si concludevano affari, si mangiava e si danzava; dove i padri accompagnavano i figli diciottenni, dove ci si affezionava e perfino ci si innamorava. Non mi permetto di dare giudizi sull’opportunità o meno dell’esistenza di luoghi del genere, perché credo che vendere il proprio corpo per denaro sia un’abiezione, una terribile rinuncia alla propria libertà e allo status di individuo; ma è anche vero che oggi queste persone per strada, in assenza di sicurezza e controllo sanitario, sfruttate e calpestate nell’assoluta indifferenza della collettività, mi danno una gran pena. Certo è che raccontare una storia ambientata in un posto così è molto interessante e stimolante.
Sembra di capire che nei suoi romanzi, e in particolare in Vipera, la città sia una specie di essere vivente. Che tipo di organismo è? E come funziona?
La mia città negli anni Trenta era radicalmente diversa dalla metropoli occidentale fatta di urla, solitudini e silenzi che è oggi. All’epoca era un coacervo di comunità diverse, ma molto coese al proprio interno: il vicolo era un’unica grande famiglia, in cui ci si sosteneva e ci si aiutava, così come lo era la comunità degli aristocratici, spesso imparentati con ascendenze comuni e comuni fortune. È una realtà da tener presente, perché i contrasti che animano le storie, le passioni che sono alla base dei delitti, si formavano in maniera particolare e molto differente da come si strutturano nel contemporaneo.
La città di allora diventa così un unico corpo, al cui interno coesistono ritmi diversi, linguaggi diversi, scale dei valori diverse. Ricciardi si muove lungo il confine tra queste differenti realtà, cercando di comprenderne i flussi sotterranei, per intuirne i movimenti e le reazioni, spesso altrimenti indecifrabili.
Raccontare la città di quel tempo mi aiuta a capirne l’essenza perenne, e quindi a guardare anche il luogo in cui vivo in maniera più accorata e partecipe.
I sentimenti trovano casa più facilmente, nella narrativa.
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