Speciale TIM BURTON
Edward Mano di Forbice – Edward Scissorhands
A cura di Alexia Bianchini
Chi decide quali sono i canoni per catalogarlo fra i diversi?
Ebbene, in una società carica di preconcetti e schemi prestabiliti, dove il conformismo è salutare e la diversità una condanna, emerge il desiderio di comunicare questo disagio.
Siamo nel 1990, quando dalla mente geniale di Tim Burton viene partorito uno dei film che più lo rappresentano.
Non solo la figura del protagonista, Edward (Johnny Deep), nasce da schizzi di quando il regista era bambino, ma persino da come aveva vissuto i suoi disagi interiori quando da piccolo non riusciva a rapportarsi ai suoi coetanei, facendo amicizia con molta difficoltà e preferendo stare chiuso in casa a disegnare.
Burton contrappone genialmente due aspetti estremi: quelli della classica quotidianità americana degli anni cinquanta, dove tutti si vestivano in egual modo, dove le donne avevano identiche capigliature e bastava un trucco sbavato per far parlare di sé, con la solitudine malinconica di un ragazzo rimasto solo in un castello tetro, e non somigliante ai suoi simili per via delle sue estremità artefatte. Di fatto, i cosiddetti normali, incuneati nel loro macchinoso schema sanno mostrare una cattiveria inaudita, fatta di pettegolezzi e diffidenza, invece, il giovane Edward, protagonista indiscusso di questo film è ingenuo e incontaminato da tutti i messaggi simbolici con cui siamo costretti a crescere. Le sue azione sono dettate unicamente dai suoi sentimenti e dalle percezioni che la sua mente limpida analizza, così lontana dal concetto di ipocrisia e dalle abitudini inculcate da una collettività sterile e chiusa. Rispetto a tutti i protagonisti del film, Edward, sebbene privo di mani, è di riflesso ironicamente il più umano.
Un capolavoro ricco di sentimenti e di significati, leggibili attraverso il silenzio del protagonista (in tutto il film dice solo 169 parole) e alla reazione che le persone hanno nel conoscerlo. Inizialmente sembra un debole individuo che nemmeno è in grado di rapportasi alla morte e che non capisce come mai il suo creatore (Vincent Price) sia deceduto. Ma nella sua deformità, giustificata dal fatto che il suo ideatore non è riuscito a finirlo, lasciando lame taglienti e forbici al posto delle mani, è in netta opposizione con la paura di fare del male. Da qua scaturisce la sua timidezza nel riuscire a farsi amici, quasi temesse l’idea di ledere al prossimo, non riuscendo così a rapportarsi, ma conquistandoli comunque grazie alla sua purezza d’animo.
Peg è colei che lo guiderà nel cambiamento, portandolo fuori dal suo oscuro e triste castello, catapultandolo nella realtà, fatta di casette colorate e abitudini indissolubili. Sarà la sua guida, il suo mentore, dandogli la forza necessaria per aprirsi al mondo. Ma non sarà certo lui a cambiare e adeguarsi. No, saranno le persone che lo conosceranno, andando oltre l’apparenza, che acquisteranno valore.
Solitudine e bisogno di amicizie.
Questa meravigliosa fiaba può sembrare truce e troppo drammatica, forse perché ormai non siamo più abituati agli originali delle fiabe che ci hanno accompagnato lungo la crescita, cariche di situazioni grottesche e orripilanti (come il taglio della lingua nella Sirenetta o dei talloni delle sorellastre di Cenerentola, senza dimenticare l’incesto in Pelle d’asino), scordate o tralasciate di proposito nelle successive rivisitazioni.
A parte le forbici, che sostituiscono le mani, Edward è una figura delicata, con quel viso pallido, graffiato, su cui regnano occhi dolci e intimiditi.
La drammaticità emerge dal desiderio innaturale di voler creare un essere artificiale (un po’ come in Pinocchio e come Frankenstein) per soddisfare il proprio desiderio di paternità, dissimulando la solitudine. Questa si trasforma in tragicità, quando la propria creatura diventa succube della sua stessa difformità. Ecco che il dolore del protagonista fuoriesce dalla situazione di razzismo legata al diverso, allo sconosciuto. Il senso del grottesco viene ampliamente soddisfatto dall’esasperazione del sobborgo cittadino, abitato dalle tipiche famiglie americane soggiogate da un sistema che li vuole impersonali e stereotipati, tutti sorrisi e buone maniere, con i colori delle case categoricamente in tinta pastello, in netto contrasto con il protagonista decisamente dark. Un po’ come nel film Pleasantville dove però è la noiosa perfezione a essere in bianco nero, a differenza della coloratissima realtà caotica e difettosa (ma decisamente divertente) del mondo di oggi.
L’aspetto estetico di Edward è stato creato ispirandosi al cantante dei The Cure, Robert Smith, a cui fu chiesto anche di scrivere la colonna sonora, che però non fu fattibile perché il cantante era impegnato con un altro progetto.
Sebbene il film fosse stato largamente pubblicizzato, non riscosse il successo di Batman (precedente film del regista). Però, sulla lunga distanza, acquistò credito, arrivando a ottenere un ottimo risultato con la vendita del VHS.
Alcuni considerano questo film, il migliore di Burton, forse per quanto abbia messo di sé in quest’opera. È certo che Edward mani di forbice, abbia concretizzato il legame di collaborazione fra il regista e Johnny Deep e il sodalizio con il compositore Danny Elfman.