Spectre

Creato il 15 novembre 2015 da Af68 @AntonioFalcone1

Dopo aver messo in atto con Skyfall (2012) un ridimensionamento del mito proprio dell’agente al servizio segreto di Sua Maestà (Bond, James Bond), nato dalla penna di Ian Fleming nel 1953 (Casino Royale) e trasposto per la prima volta al cinema nel 1962*, attuato in virtù di una mediazione fra le caratteristiche essenziali delle origini (la spietata brutalità, il fascino da viveur, l’umorismo sprezzante) e i mutamenti in atto nel nuovo ordine mondiale, ora con Spectre il regista Sam Mendes e il consueto pool di sceneggiatori (Neal Purvis, Robert Wade, John Logan, cui si aggiunge Jez Butterworth) sembrano prendere nuovamente un’altra direzione, pur muovendosi sempre nell’ambito di un particolare scontro tra fisicità ed umanità. Da un lato, infatti, vengono ripresi i temi portanti, in linea continuativa, del precedente film, ovvero i dubbi esistenziali ed i tormenti interiori propri del protagonista (il sempre ottimo Daniel Craig), che si interroga su quanto i metodi usati validamente un tempo, all’interno di un clima da Guerra Fredda o tentativi di una sua riesumazione, possano funzionare a tutt’oggi, anche considerando come, in seguito all’avvento di nuove tecnologie, il confine fra Bene e Male si sia reso sottilmente ambiguo e passibile di inedite declinazioni.

Daniel Craig

Dall’altro, invece, si evidenzia la volontà di chiudere il cerchio aperto con Casino Royale (Martin Campbell, 2006), cui hanno fatto seguito Quantum of Solace (Marc Foster, 2008) e il citato Skyfall, offrendo di fatto una tetralogia all’interno della longeva saga bondiana.
L’intento, neanche tanto sottinteso, è di far sì che 007 possa riappropriarsi definitivamente della sua identità più classica, all’interno di un percorso dal sapore proustiano, come suggerito, credo lo abbiano notato in molti, dal nome del personaggio, Madeleine Swann, interpretato dalla splendida ed algida Léa Seydoux.
Il ruolo di quest’ultima appare fondamentale nel consentire a Bond di affrontare materialmente le varie tappe di un tragitto al cui interno ogni dettaglio gli permetterà di entrare in contatto con il proprio Io più profondo.
Attraverso la rimembranza di quanto si nasconde fra le pieghe del tempo perduto, verrà fuori una conoscenza di sé tale da avviare un proficuo confronto con le pressanti sollecitazioni offerte dal presente.
Il rincorrersi tra le due entità, vecchio e nuovo, renderà al nostro la riscoperta, e conseguente riappropriazione, della propria complessa personalità, come viene sublimato dal finale, quando lo vediamo alla guida della mitica Aston Martin DB5, pronto a partire verso un domani che non muore mai.

Ralph Fiennes

Il tempo, inteso quale sviluppo di una personale dimensione interiore, costituisce quindi il tema portante della pellicola, come reso evidente dai titoli di testa (che scorrono sulle note di Writing’s on the Wall, Sam Smith, senza infamia e senza lode) e, ancora prima, dalla sequenza iniziale che, classicamente, li precede, introdotta dalla didascalia I morti sono vivi.
Siamo a Città del Messico, il giorno della Festa dei Morti, un sopraffino piano sequenza (debitore in parte dell’apertura di Touch of Evil, L’infernale Quinlan, 1958, Orson Welles), ci introduce all’interno della vicenda.
Bond, in linea con il mascheramento sfoggiato per l’occasione, è uno zombie, sopravvissuto a sé stesso e a ciò che rappresenta, intento a mettere in atto, dopo una tranquilla passeggiata sui tetti di un edificio, l’eliminazione di tale Sciarra (Alessandro Cremona), che avviene con successo ma solo dopo un movimentato parapiglia fra cielo e terra a bordo di un elicottero.
L’agente segreto ha agito nuovamente in base ad un proprio codice comportamentale e per di più senza un mandato specifico, ubbidendo al lascito via video della defunta M (Judi Dench), come spiega a Moneypenny (Naomie Harris), una volta rientrato al quartier generale in quel di Londra.

Ben Whishaw e Craig

Ovvio che questo comporti la sua sospensione da parte del nuovo M (Ralph Fiennes), anche perché è in atto un progetto volto a raggruppare ogni servizio segreto mondiale in un unico centro informatizzato, idoneo a tenere sotto controllo tutto e tutti, con tanto di droni a sostituire il lavoro sporco degli agenti a doppio zero, fortemente voluto dal viscido C/Max Denbeigh (Andrew Scott). Il nostro eroe continua imperterrito la sua missione, coadiuvato a distanza non solo da Moneypenny ma anche da Q (Ben Whishaw), appropriandosi però indebitamente della nuovissima Aston Martin DB10 destinata al collega 009, così da recarsi a Roma, al funerale di Sciarra. Conosciuta la vedova dell’ucciso, Lucia (Monica Bellucci, apparizione ben giocata), Bond, col solito savoir faire, riuscirà a sapere dalla donna il luogo dove dovranno riunirsi i componenti della Spectre, la misteriosa organizzazione criminale di cui Sciarra era componente. A capeggiarla vi è Franz Oberhauser (Christoph Waltz), che sembra avere più di un legame con James e le sue gesta.

Christoph Waltz

Una volta scoperto, Bond, riuscito a fuggire, si recherà in Austria, dove incontrerà una sua vecchia conoscenza, Mr. White (Jesper Christensen), il quale prima di morire gli affida la figlia Madeleine (Seydoux), che potrebbe portarlo a scoprire ulteriori minacce per l’intero sistema mondiale.
Quanto basta per avviare una serie di mirabolanti avventure, che condurranno 007 e Madeleine fino a Tangeri e poi nuovamente a Londra, dove tutto, a seconda dei punti di vista, potrà avere fine oppure dare vita a un nuovo, ma non inedito, inizio … L’evidente simbiosi fra l’impostazione registica e le scelte di sceneggiatura, volta a ricercare un punto d’incontro fra il tipico intrattenimento “scacciapensieri” proprio delle vecchie pellicole di Bond e un minimo d’introspezione psicologica da dedicare tanto al personaggio principale quanto ai coprotagonisti, riversa su Spectre un andamento narrativo a corrente alternata. Intrattiene e diverte, ma mostra spesso il fiato corto nell’offrire maggiore spazio al tipico schema bondiano (missione da compiere/suo impedimento/ eroe in difficoltà/pronta salvezza), a volte ridondante nella pur pregevole classicità, spezzando così l’incantesimo della fluidità propria, almeno a mio avviso, di Skyfall.

Fra le sequenze particolarmente riuscite, oltre quella iniziale, da menzionare l’inseguimento a Roma lungo il Tevere e le vie cittadine tra l’Aston Martin DB10 di Bond e la Jaguar Cx75 guidata dallo scagnozzo di Oberhauser, Hinx (Dave Bautista), ibrido connubio fra Oddjob/Harold Sakata* e Jaws/Richard Kiel* o la scazzottata tra il suddetto tirapiedi e 007 sul treno (che richiama, come del resto il rapporto fra Bond e Madeleine, From Russia with Love, 1963, Terence Young), mentre altre appaiono meccaniche ed inutilmente eccessive (ad esempio un altro inseguimento, nell’innevata Austria). Nella predominanza della plausibilità sulla credibilità, un ruolo determinante lo offre il buon montaggio di Lee Smith, distante dal ritmo convulso di pellicole similari; l’avallo classicheggiante è reso evidente inoltre dalla scelta di girare nel formato 35mm in luogo del digitale, ulteriormente avvalorato dalla fotografia di Hoyte Van Hoytema che avvolge ogni scena di una luce sempre piuttosto densa, tendente al giallognolo, e dal commento sonoro di Thomas Newman, le cui note rincorrono le sequenze d’azione nel loro svolgimento, caratterizzandole ulteriormente nell’offrire inedita modulazione al noto James Bond Theme. I problemi mondiali, ovvi ma drammaticamente attuali, hanno origine, come in Skyfall, da una questione personale.

Craig e Léa Seydoux

Il tragico e mellifluo villain interpretato con fredda professionalità da Waltz è pur sempre uno psicopatico, spinto tanto dal desiderio di dare vita ad un nuovo ordine universale, quanto da quello di placare le ferite dell’anima.
Un requisito quest’ultimo che apparteneva anche al precedente cattivone Silva (Javier Bardem), il cui modo d’agire era però più insinuante, ironico e perfidamente malvagio, vedi l’allestimento di una sottile tortura psicologica, anziché fisica, per quanto sia innegabile che quanto allestito da Blofeld offra una tensione certo palpabile. Spectre, in conclusione, così come il drink preferito da Bond, è adeguatamente agitato, ma non mescolato, rende omaggio al mito, riprendendo quanto su scritto, in un turbinio convulso di morte e rinascita i cui cicli sono improntati verso un’attualizzazione pronta ad effondere classicità, senza ricorrere a eclatanti gadget (la DB10 ha i comandi e il seggiolino eiettabile della DB5…), esternazioni modaiole all’ultimo grido (i vestiti di Bond sono un ulteriore richiamo vecchio stile) o trucchi che non siano quelli propri del buon vecchio cinema d’intrattenimento, richiamato a piè sospinto.

Léa Seydoux

Parafrasando Proust, eccolo che ritorna, Spectre rappresenta rispetto a Skyfall “una seconda sorsata nella quale non trovo di più che nella prima mentre una terza darebbe un po’ meno della seconda”, ovvero, senza tanti giri di parole, una volta ridata al buon vecchio James l’identità che gli è propria (Essere ciò che siamo e diventare ciò che siamo capaci di diventare è il solo fine della vita, Robert Louis Stevenson), occorrerebbe voltare concretamente pagina… My name is Swann, Madeleine Swann …

*Dr. No, Terence Young, mentre il titolo italiano enfatizzava lo status di killer prezzolato proprio di James Bond, Licenza di uccidere

*Goldfinger, 1964, Guy Hamilton

* The Spy Who Loved Me, Lewis Gilbert, 1977 e Moonraker, sempre per la regia di Gilbert, 1979

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