- 1. Il ruolo della spesa pubblica
Molti commentatori pensano che questi valori siano “troppo elevati” e che debbano essere ridotti o, quantomeno, non aumentati.
Bisogna però considerare che la spesa pubblica aumenta perché svolge funzioni complesse ed essenziali per lo sviluppo del sistema, in particolare, di fornitura di beni e servizi di pubblica utilità, di redistribuzione, di creazione di domanda effettiva; come è stato osservato dai lavori pionieristici di Adolph Wagner e di altri esponenti del “socialismo austriaco” e del “socialismo della cattedra”, e da vari contributi dell’economia keynesiana e istituzionalista. Ovviamente, tutto ciò si intreccia con il potere delle lobby, con le inefficienze e gli altri fallimenti dell’azione pubblica.
Se la spesa pubblica — nell’ambito di un principio di sussidiarietà — può essere ridotta o mantenuta stabile, ciò è sicuramente auspicabile. Ma se questo non è possibile per i motivi richiamati, l’unica strada è un aumento graduale e responsabile. Ciò che è importante in questo processo è l’efficienza e l’accountability della spesa pubblica e del sistema fiscale.
- 2. Disavanzo di bilancio contro tassazione progressiva
Il disavanzo di bilancio è finanziato principalmente attraverso il debito pubblico. In Italia il suo valore è in continuo aumento — 129,5% del PIL nel 2013 — e le previsioni sono, in assenza di riforme, di un ulteriore incremento.
A questo punto, si pone il quesito centrale: come è preferibile finanziare la spesa pubblica, aumentando il disavanzo di bilancio e sforando i parametri di Maastricht, o aumentando leggermente la tassazione?
Premesso che una politica di disavanzo espansivo sembra assolutamente preferibile alle politiche di austerità, riteniamo però che un leggero aumento della pressione fiscale in modo progressivo e selettivo — di più sui redditi molto elevati e sulle rendite, e di meno sul lavoro e gli impieghi produttivi — possa essere ancora più efficace.
Infatti, l’incremento del disavanzo di bilancio aumenta — con l’aumento del ricorso al debito pubblico — anche la spesa pubblica destinata al pagamento dei relativi interessi, cioè destina alle rendite risorse che potrebbero essere utilizzate per gli obiettivi propri della spesa pubblica.
Una graduale riduzione del disavanzo, invertendo questa tendenza, avrebbe quindi il notevole vantaggio di orientare la spesa pubblica verso il conseguimento di obiettivi di sviluppo economico e sociale.
Tale percorso avrebbe anche effetti di carattere espansivo per l’economia. Infatti, come è evidenziato dal cosiddetto teorema di Haavelmo, anche un bilancio in pareggio esercita effetti moltiplicativi non trascurabili.
A questo riguardo, possiamo osservare che la spesa per interessi sul debito pubblico è in continuo aumento, ed è pari nel 2013 a circa 84 miliardi di euro, pari al 5,4% del PIL.
A ciò corrisponde un notevole avanzo primario — con un valore percentuale tra i più elevati in Europa, pari a 2,3% del PIL nel 2013, e con una previsione di aumento per i prossimi anni — che ha effetti depressivi (si drenano risorse dal sistema economico per trasferirle al pagamento degli interessi sul debito pubblico).
Se a ciò aggiungiamo che una parte consistente del debito pubblico appartiene a grandi gruppi, in particolare del settore finanziario, e che, in tale ambito, una parte notevole è nel portafoglio di gruppi esteri, il quadro è completo.
Con un percorso di rientro del debito e del disavanzo pubblico che comporti, nel giro di qualche anno, la riduzione del pagamento degli interessi del 20% (obiettivo del tutto realistico) si recupererebbero 16-17 miliardi di euro annui.
Ciò dovrebbe accompagnarsi ad una riduzione dello spread per l’Italia e ad una riduzione dei tassi di interesse reale nell’area dell’euro, obiettivi che si stanno in parte realizzando.
In effetti, forse la soluzione ottimale sarebbe un mix di moderato disavanzo e di moderato incremento della pressione fiscale nel senso ricordato, in modo da massimizzare gli effetti positivi di entrambe le misure.
Gli effetti complessivi di questo processo potrebbero corrispondere ad una sorta di rivoluzione culturale, con lo spostamento di ingenti risorse dalle rendite e dal settore finanziario al lavoro, ai servizi reali, alla ricerca, alla cultura e all’innovazione.
Una trasformazione di questo tipo appare ancora più indicata nel periodo attuale, caratterizzato da profonde trasformazioni nella direzione di una “società del tempo libero”,[2] e che per questo richiede un quadro macroeconomico equilibrato ed espansivo, e un intervento pubblico efficiente per conseguire obiettivi di sviluppo equo e sostenibile.
[1] I dati sono tratti dalla Nota di Aggiornamento del Documento di Economia e Finanza 2013, del Ministero di Economia e Finanze: alla quale si rimanda anche per gli aspetti metodologici e una definizione più dettagliata delle varie voci.
[2] A. Hermann, “Verso una società del tempo libero”, Sviluppo Felice, 18 luglio 2013.
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