Quando sono rimasta dai miei per 15 giorni, mi sono sorbita una serie di programmi televisivi, di quelli che sono indicati per un pubblico femminile.
Nella maggior parte dei casi si trattava di matrimoni, preparativi per matrimoni, torte per matrimoni, abiti per matrimoni ecc... Un incubo!
Forse mia madre stava tentando di dirmi qualcosa... mah!
Comunque, tutti i programmi erano accomunati da una sola cosa: la sposa impazzita. Eh sì, perché questo tipo di trasmissione riesce a trasformare il sogno romantico in un incubo a tinte fosche. Dipingendo le future mogli come tiranniche e irrazionali macchine da cerimonia nuziale.
Sempre insoddisfatte. Sempre sull'orlo di una crisi di nervi. In continua isterica esibizione di richieste irrazionali.
Per solidarietà femminile non dovrei dirlo, ma ho provato pena e umana comprensione per il marito - dipinto sempre come un inerme coglione - investito dalle assurde sfuriate di donne impazzite. Fino a tifare per un finale a sorpresa. Con lui che, sull'altare, alla fatidica domanda risponde "ma anche no!". Andandosene, poi, con tutta calma tra lo sconcerto degli invitati e l'apoteosi della crisi isterica della sposa.
Non sono una stronza. E' che ho un concetto del tutto diverso di "femminilità". Per non parlare di "matrimonio".
Anche io, da adolescente, ho provato ad immaginare il fatidico giorno. Ma non sono mai scesa più di tanto in dettagli e particolari. Niente segnaposto. Niente fiori. Nessun fotografo. Nessuna traccia delle bomboniere. Persino l'abito era avvolto dalla nuvola dell'indefinito. Che lo rendeva sfocato e senza forma.
Non mi interessava veramente! Quello che cercavo di immaginare era l'emozione. O, forse, l'amore. Perché è di questo che si tratta. O dovrebbe trattarsi.
E mi è venuto in mente, come sempre, che la lingua italiana è davvero esplicita e spietata quando trasforma un verbo transitivo in riflessivo. Quelle donne non volevano sposare un uomo. Volevano solo sposarsi. Ovvero riflettere su se stesse un'azione nata per essere riversata su un'altra persona.
Quando mi sono innamorata follemente, ho pensato anche io al matrimonio. Ma era così forte il desiderio di trascorrere la mia vita con lui che tutto il resto non aveva importanza. Lo avrei sposato in jeans e maglietta. Senza parenti e amici. Ovunque. Anche in una landa desolata. E se avesse voluto una cerimonia sfarzosa, mi sarei piegata anche a questa possibilità. Tutto, purché il mio sogno si realizzasse. Perché il mio sogno era lui, non la cerimonia in sé. E non si può dire che non sia un'ospite attenta. Io che, con le mie cene, conosco l'uso di tutte le posate e la posizione corretta dei bicchieri su una tavola. Ma quello è un piacere diverso che riservo alla parte di me più incline all'accoglienza e alla cura dei miei invitati. Perché in quel caso è a loro che mi dedico.
Forse, nonostante il mio cinismo, sono davvero l'ultima delle romantiche. Forse, il mio rifiuto per una vita a due non è figlio dell'attaccamento alla mia singletudine.
E, forse, la risposta che cerco da oltre un anno tra le righe di questo blog sta davvero in una sola parola. Un verbo che si ostina a restare transitivo. Sebbene non abbia ancora trovato l'"oggetto" verso cui indirizzare la sua azione. E sublimare, così, la sua perfetta esistenza.Articolo originale di Federica Rossi per Poco sex e niente city.
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