La forza del film di Tom McCarthy sta tutta nella messa in scena, concentrata sulla verità dei fatti accertati e per nulla incline al sentimentalismo da bancarella. Lasciando la parte emotiva nelle mani dei suoi protagonisti, Mark Ruffalo e Michael Keaton strepitosi, ma limitando i racconti delle vittime al minimo, scelta difficile che al contrario avrebbe garantito al film lacrime facili, Spotlight (in Italia assurdamente tradotto come Il caso Spotlight) si concentra sull’istituzione chiesa cattolica e non sui singoli sordidi casi. L’indagine, non è un mistero, fu un vero e proprio terremoto, che portò alle dimissioni di un cardinale, e Spotlight è la fedele ricostruzione, tra dubbi e pressioni sterne, dell’iter che portò a generare quel sisma. In questo senso fanno un ottimo lavoro i protagonisti, ognuno determinato ad arrivare in fondo alla verità: se Mark Ruffalo è impulsivo, frustrato ed arrabbiato, Rachel McAdams rappresenta la parte più umana e dolente, quella in contatto con le vittime di abusi, ma è forse Michael Keaton la vera forza del film, rappresentando di fatto quell’etica del raccontare e verificare, che oggi sembra ormai appannaggio di un passato lontano. Spotlight è prima di tutto il fedele resoconto di come nasce un’indagine giornalistica, di come un semplice indizio non basti a giustificare un articolo, ma di come duro lavoro, pazienza e un’insolita capacità a mettere insieme i pezzi, riesca a portare un po’ di luce in un mondo di tenebra e menzogne.
Cinema di inchiesta e di denuncia, pellicola probabilmente di maniera, ma necessaria, a non dimenticare mai una vicenda tra le più controverse che si siano affacciate nella recente banalità delle nostre vite e delle nostre fragili certezze.