Squarci di settima arte: il cinema totale di Stanley Kubrick

Creato il 17 giugno 2013 da Taxi Drivers @TaxiDriversRoma

Il suo nome è sinonimo di cinema e insieme di arte totale capace di trascendere i limiti contingenti dell’immagine in movimento. Di autorialità e genere. Di genio e sregolatezza. Di abnegazione assoluta e totalizzante, di precisione millimetrica e maniacale, di creazione e ricreazione, invenzione e ricerca.
Stanley Kubrick corrisponde all’assoluto e all’intimo, alla grandezza sterminata e all’astrattezza significante, al cosmo e all’anima, alla potenza di un’opera dai contorni indefiniti, irriducibili alla pochezza di qualsiasi definizione, concetto, parola.
Con un numero abbastanza esiguo di titoli – appena 13 in più di 40 anni di carriera – il Maestro di New York ha saputo veicolare una delle riflessioni più adulte, mature e stimolanti sulla natura del creato, l’origine della vita, il mistero del cosmo e insieme sull’universo -più immenso e diseguale di quello fisico- dell’umano, sugli abissi insondabili dello spirito, la gretta piccolezza dell’essere al mondo, la schizofrenica marea di torbide ossessioni propria del vivente, le contraddizioni del vivere sociale e delle epoche storiche tra passato, presente e futuro, attraverso una linea di speculazione impregnata di rigore scientifico, presupposti estetici, filosofici e morali di valore incalcolabile.
Una parabola capace di passare attraverso tutti i generi storicamente consolidati e di rivisitarli attraverso il filtro di una mente estranea alle convenzioni costringenti e ai canoni sclerotizzati.

Stanley Kubrick

Paradossalmente, l’esordio del regista statunitense è una pellicola di scarso valore estetico, da lui stesso rigettata in seguito. Si tratta di Paura e desiderio, film bellico carico di tutti i limiti di un esperimento universitario totalmente autoprodotto (così la definì il cineasta) lungo poco più di un’ora, già caratterizzato da quel radicato anti-militarismo -unito all’anelito universalizzante- che costituirà uno dei fulcri portanti della sua poetica ma penalizzato da un ritmo stanco, un’andatura schematica, diseguale, verbosa, una scrittura retorica.
Di ben altro valore Il bacio dell’assassino, primo contatto di Kubrick con i labirintici e contorti stilemi del noir e con la sua diacronica struttura fatta di rimandi e continui scivolamenti temporali, imperniato sulla breve e appassionata storia d’amore tra un pugile e una ballerina orfana impiegata presso una squallida sala di incontri, ostacolata dalle sordide mire di un viscido proprietario, innamorato di lei. Tra magistrali chiaroscuri, scambi di persona, finestre mai abbastanza chiuse che permettono di guardare ed essere spiati, tradirsi o mettersi in salvo, inquietanti depositi di manichini che si fanno luogo di scontro tra vita e morte, Stanley Kubrick mette in luce a soli 28 anni una straordinaria padronanza del mezzo unita a una capacità pressoché inappuntabile di muoversi nei binari predefiniti del sistema dei generi statunitensi. Al secondo film della sua carriera, il cineasta conclude a pieni voti il suo “tirocinio” cinematografico e, dimostrando di non avere più nessuna regola da apprendere, dà il via a una rivisitazione totalmente e definitivamente personale di quelle strutture su cui il cinema classico americano fondava da decenni la propria ragion d’essere, autocertificandosi appena prima della rivoluzione messa in atto dalla Nouvelle Vague, autore nel senso più pieno e profondo del termine.
E’ proprio al terzo lungometraggio che Kubrick giunge al capolavoro con il monumentale Rapina a mano armata, noir moderno che racconta la pianificazione e la messa in atto di un colpo grosso a un banco di scommesse di un ippodromo, riplasmando attraverso il proprio personalissimo senso del cinema il genere e rinnovando l’archetipo del cosiddetto caper movie, in una struttura che fungerà da paradigma intoccabile per generazioni di registi. Amplificando a dismisura l’operazione già messa a punto con il film precedente, Kubrick forza lo scheletro già contorto del noir e aggiunge al tipico groviglio di personaggi, identità, amore e morte, una struttura temporale esplosa che seziona l’intreccio narrativo in temporalità e punti di vista che si susseguono, si alternano, si ripetono con scarti e variazioni, lasciando che lo spettatore non saturi mai con certezza inattaccabile la propria esigenza di sapere e anzi si trovi di volta in volta spiazzato da un passo indietro diegetico che corrisponde a un’inversione del conoscere.
Kubrick riplasma -con una maestria mai sperimentata prima- il tempo filmico, chiude definitivamente l’era delle narrazioni chiare, lucide, lineari e programmate. E lo fa senza mai distogliere il proprio pubblico da quel magico vortice di suspense, sorpresa, incanto, potenza e affabulazione che ha fatto della sua opera uno dei rarissimi casi in cui una poetica autoriale, capace di sperimentare e mettere in crisi le categorie estetiche pre-costituite, convive con un pubblico eterogeneo, vastissimo e di ampio respiro.

Orizzonti di gloria (Paths of Glory), 1957

Dopo l’approccio al noir, Kubrick decide di tornare alle atmosfere di quel primissimo “esperimento studentesco” a più riprese rigettato e firma Orizzonti di gloria, destinato per converso a diventare uno dei massimi capolavori del cinema bellico, e non solo.
Le inesplorate zone boscose in cui i soldati americani si ritrovavano smarriti e privi di speranza in Paura e desiderio lasciano il posto a quell’anticamera dell’inferno che è una trincea francese della prima guerra mondiale, continuamente alternata al rigore classicheggiante dei più inquietanti e mostruosi palazzi della sovrintendenza militare in cui maggiori senza scrupoli programmano le esistenze dei soldati al fronte come fossero merci da baratto. Kirk Douglas -anche produttore- fa da contraltare a questi indegni tutori della legalità bellica, dimostrando in più di un’occasione un’umanità e un attaccamento ai propri uomini che nei primi è negata e assente.
In questo devastante affresco di un’umanità alla deriva, il cineasta dà vita a una delle marche più tipicamente riconoscibili del suo cinema, quella carrellata ancorata ai propri personaggi -a precedere o a seguire- che tornerà come un leitmotiv ossessivo praticamente in tutti i suoi lavori.
Qui inoltre colora queste costanti carrellate di un sottotesto simbolico, carico di notazioni morali e psicologiche: mentre i movimenti legati agli ufficiali corrotti assumono un orientamento curvilineo, zigzagante, in grado di richiamare le spirali serpentiformi dei rettili e tutto l’allegorico bagaglio di connotazioni negative (meschinità, opportunismo, smodata supremazia dell’Ego, tradimento) di cui la tradizione occidentale -e non solo- li ha caricati; i carrelli che precedono l’esemplare generale interpretato da Douglas sono caratterizzati da una linearità priva di smottamenti o scosse, in un evidente richiamo alla legalità incorruttibile come al coraggio di una giustizia purtroppo negata.
Tre anni dopo ancora Kirk Douglas -di nuovo produttore e protagonista- scalza Michael Mann dalla cabina di regia di Spartacus e impone Stanley Kubrick che per la prima volta si ritrova schiacciato sotto il peso delle manie hollywoodiane (il film fu finanziato dalla Universal), costretto ad accontentare le esigenze di quelle alte sfere mosse da un ben noto conservatorismo, e capace insieme di imprimere piccoli scarti -di sceneggiatura come di regia- tesi ad ancorare la pellicola al tessuto coerente della sua poetica. Ne esce un ibrido di grande interesse che fonde gli stilemi classici del kolossal epico con alcune scelte originali, prima fra tutte la resa della battaglia finale con la reiterazione di campi lunghi o lunghissimi atti a mostrare con rigore filologico (lo stesso che permeerà altri suoi film storici) i movimenti e le avanzate rigidamente perfette delle coorti romane, in opposizione alla forza brutale e diseguale dei ribelli. La stessa opposizione chiave che domina il film, quella che oppone gli schiavi guidati da Spartaco contro il logoro e corrotto potere di Roma, viene inoltre riletta da Kubrick attraverso quella chiave universalizzante già paradigmatica del precedente Orizzonti di gloria (e in fondo anche del primo Paura e desiderio).
L’esperienza di Spartacus tuttavia frustra pesantemente il cineasta statunitense che mal digerisce l’invadenza della produzione all’interno del circuito della lavorazione del film come l’impossibilità di sovrintendere liberamente a tutte le fasi della realizzazione. Così, al pari di altri geniali cineasti quali Orson Welles ed Eric von Stroheim, Kubrick decide di lasciare definitivamente gli Stati Uniti, prendendo la volta dell’Inghilterra dove nel 1962 gira Lolita, adattando per il grande schermo il capolavoro letterario di Nabokov, uscito tra fiumi di controversie appena sette anni prima. Il cineasta statunitense inizialmente investe lo stesso scrittore -appassionato di cinema- del ruolo di scrivere la sceneggiatura. Nabokov elabora una prima enorme stesura (oltre 400 pagine) ma su consiglio del regista la sfoltisce ampiamente. Al momento della consegna riceve i complimenti di Kubrick ma alla presentazione della pellicola definitiva si accorge della profonda manipolazione che il cineasta newyorkese ha attuato al suo scritto, di cui a detta sua non è rimasto che “il 20% del lavoro originario”. In pratica, nonostante nei credits del film il nome di Nabokov spicchi imperioso come autore dello script, Lolita costituisce il primo -o quantomeno il più paradigmatico- esempio della straordinaria capacità di adattamento di Stanley Kubrick (paragonabile forse solo a quella leggendaria del nostro Luchino Visconti), dotato di un’innata sensibilità nei confronti dell’immagine in movimento e capace di dar vita con maestria senza eguali alle parole rinchiuse nelle paratie stagne della carta stampata.
Nel dar forma e vita al torbido intreccio amoroso tra un professore e una “ninfetta” adolescente, il cineasta rende giustizia alla complessità di evocazioni e temi elaborata dallo scrittore russo, descrivendo senza -troppi- freni l’annichilimento e il vortice di follia maniacale in cui decade il protagonista, la sua doppiezza strutturale ambiguamente riflessa nell’alter-ego trasformista Quilty (interpretato da un grandissimo Peter Sellers), all’interno di un apparato complessivo che richiama lo specchio, la reiterazione, la duplicità finzionale, in una parola il cinema stesso.

Il dottor Stranamore, ovvero: come imparai a non preoccuparmi e ad amare la bomba (Dr. Strangelove or: How I Learned to Stop Worrying and Love the Bomb), 1964

Successivamente Kubrick giunge alla fantascienza e si fa interprete dei suoi diversi orientamenti, realizzando in soli 7 anni tre dei massimi capolavori del genere e del cinema tout court, muovendosi tra distopia e riflessione di matrice filosofica sul cosmo e il destino dell’uomo.
Nel 1964 realizza Il dottor Stranamore, ovvero: come imparai a non preoccuparmi e ad amare la bomba, “commedia-incubo”, dramma surreale, farsa grottesca dai toni politici che s’inscrive perfettamente nel clima di tensione proprio del mondo bipolare post-secondo dopoguerra.
Tra simboli fallici, tagliente umorismo nero, una parodia anti-militarista sempre tesa a screditare le imbecillità ipocrite ed egoiste delle alte sfere e uno strepitoso Peter Sellers che -al vertice del suo istrionismo- recita in ben tre parti diverse, Kubrick narra di un futuro prossimo -o forse di un tristemente ipotetico presente- in cui la tanto temuta bomba nucleare è esplosa davvero, provocando un’apocalisse atomica. Nei modi di un perfetto congegno a orologeria impregnato di suspence e satira, il cineasta alterna lo stretto abitacolo di un B-52 diretto verso l’Unione Sovietica per sganciare l’ordigno mortale, la vasta sala del Pentagono in cui uno scienziato ex-nazista, molti generali e il Presidente in diretta telefonica decidono le sorti dell’umanità e le vicende del colonnello Mandrake che tenta di fermare la folle missione, in un crescendo di disavventure ad alto tasso di comicità surreale.

2001: Odissea nello spazio (2001: A Space Odyssey), 1968

Eppure nonostante l’incredibile successo di critica e di pubblico che Il dottor stranamore ottiene in tutto il mondo e al di là dell’incalcolabile influenza prodotta su decine e decine di cineasti avvenire, la vera svolta del cinema kubrickiano -e non solo- giunge quattro anni dopo, in quel 1968 che vede l’uscita di 2001: Odissea nello spazio, vero e proprio evento -definitivo e insieme fondativo- di una nuova epoca, tassello immancabile e imprescindibile di quel diseguale mosaico che è la storia del cinema, pietra miliare “soprattutto per il cambiamento che ha segnato nel modo di fare, di guardare e di considerare il cinema […] una svolta nella storia dello sguardo” (come scrive lo studioso italiano Sandro Bernardi).
La pellicola, divisa teoricamente in tre parti, si apre con una terra ancestrale e desertica, abitata da animali selvatici e scimmie antropomorfe di cui Kubrick intende narrare lo scarto evolutivo che le conduce allo stadio umano, rappresentato attraverso l’apparizione di un enigmatico monolito nero che coincide con la genesi della razionalità all’interno di un primate. A sua volta l’avvento del pensiero è indistinguibilmente legato all’apparizione della violenza: un comunissimo osso diventa l’arma deputata a contendersi un primato e una volta lanciato in aria si trasforma in una navicella spaziale, in quella che è l’ellissi più famosa della storia del cinema. Agli ominidi si sostituiscono ora uomini ultra-evoluti, capaci di navigare nello spazio profondo e di raggiungere la Luna in cerca di altre forme di vita che di nuovo coincidono con il levigato e inquietante monolito nero.
Uno stacco ci conduce alla seconda parte del film (“Diciotto mesi più tardi. Missione Giove): alcuni astronauti sono in viaggio verso Giove a bordo della Discovery, navicella governata da un computer parlante, pensante e imperfettibile che, nel momento in cui scopre il tentativo di disattivazione progettato dai propri “inquilini” li fa fuori uno a uno. L’unico a salvarsi è David Bowman che riesce a spegnere HAL 9000 e seguendo le indicazioni di un messaggio registrato si muove alla volta di Giove. Inizia così la terza parte (“Giove e oltre l’infinito”): un trip stellare e l’approdo finale su un pianeta che tanto assume le fattezze di casa, sul quale Bowman assiste al proprio invecchiamento progressivo, all’ultima apparizione del monolito e alla finale reincarnazione in uno Star Child, uomo nuovo fluttuante nello spazio, minaccioso e innocente, il cui definitivo sguardo in macchina chiude la pellicola.
Tre viaggi, dunque. O forse un solo viaggio ripetuto tre volte, un’unica struttura che si triplice.Una medesima struttura narrativa -che è forma di tutte le forme e storia di tutte le storie- reiterata con variazioni visive per fare del ritorno il leitmotiv ossessivo del racconto filmico. Motivo ribadito esplicitamente dal titolo stesso: il 2001 non si configura infatti come una data reale ma piuttosto come numero mitico in grado di rinviare simbolicamente alle Mille e una notte, all’infinita affabulazione di Sheherazade, alla ciclicità del creato, al millenarismo e ai suoi miti di rigenerazione, perfino all’eterno ritorno di Nietzsche.
Un unico viaggio dunque attraverso l’immensità ciclica del creato e la profondità abissale dell’animo umano, permeato di elementi misteriosi ed enigmatici, affascinanti e carichi di evocazioni, a cominciare dal levigato e speculare monolito nero, forma lapidaria, psicanalitico simbolo dello specchio capace di costruire identità, astratta e unica raffigurazione possibile di una off-earth intelligence lontana dalle banalizzazioni hollywoodiane, passando per il peculiare “personaggio” HAL 9000, lungimirante prefigurazione di intelligenza artificiale e insieme inquietante sintesi della rivolta tecnologica sull’uomo, con quell’occhio rosso iniettato di sangue che rinvia in modo palese alla tigre dominatrice che apre il film tra le lande di una terra archetipica, fino allo sguardo in macchina di quello Star Child che pare rivendicare la necessità di uno sguardo nuovo del cinema e insieme riferire al suo pubblico di impegnarsi a guardare il mondo con occhi nuovi.
Il tutto in quello che è il paradigma più perfetto e compiuto delle strutture aperte, svincolate dall’univocità del senso e tese invece alla sua infinitizzazione, una struttura aperta all’affascinante possibilità per cui ogni spettatore sia “libero di speculare a suo gusto sul significato filosofico del film”, un’opera in grado “di rappresentare un’esperienza visiva, che aggiri la comprensione per penetrare con il suo contenuto emotivo direttamente nell’inconscio”. Un film dominato da uno stile drasticamente innovante capace di rigettare i criteri di ritmo, azione e causalità tipicamente classici e prediligere invece il rigore scientifico, l’azzardata scelta di ricreare il reale -e lentissimo- movimento delle astronavi nello spazio, di fissare il nero assoluto del cosmo, di abbandonarsi al silenzio totale, di prediligere dialoghi rarefatti e quasi mai significativi. Senza trascurare quella tendenza meta-cinematografica e citante così propria del cinema kubrickiano, qui tesa a omaggiare le esperienze del cinema underground statunitense degli anni ’60 (si pensi al trip stellare di Bowman), le tecniche della Nouvelle Vague (dallo sguardo in macchina ai jump-cut sfruttati nella seconda parte del film, passando per l’espediente della camera a mano), perfino gli stilemi di un maestro come Ejzenstein di cui Kubrick recupera l’espediente straniante di riprendere la stessa inquadratura da più punti di vista nel celebre e magnifico frammento in cui la scimmia antropomorfa che ha acquisito razionalità colpisce la carcassa di un facocero.

Arancia meccanica (A Clockwork Orange), 1971

Solo tre anni dopo, il cineasta statunitense conclude il suo itinerario attraverso il “macrocosmo fantascienza” con Arancia meccanica, ennesimo imprescindibile capolavoro tratto dall’omonimo romanzo di Burgess, ambientato in una Londra futuristica e decadente in cui tutto è copia di una copia e nella quale Alex De Large -accompagnato dai suoi drughi- pratica gratuitamente l’esercizio dell’ultraviolenza tra la musica di Beethoven, droghe, stupri e aggressioni finché non finisce in carcere e accetta un lavaggio del cervello che inibisce le sue tendenze violente. Al di là dell’esplicita riflessione sul libero arbitrio per cui -come ammette Kubrick- “l’uomo deve poter scegliere tra bene e male, anche se sceglie il male. Se gli viene tolta questa scelta egli non è più un uomo, ma un’arancia meccanica”, il film occupa un posto di rilievo in tutti gli annali del cinema per la profonda e -allora- inusitata riflessione sulla modernità e sullo stesso mezzo cinematografico di cui si fa portatore. Kubrick crea un mondo distopico che condivide con la contemporaneità e il cinema una serie di implicazioni strutturali e fondative. Dimostrando per l’ennesima volta il suo occhio lucido e lungimirante sul presente, il cineasta fa dell’universo in cui si muovono Alex e i suoi drughi un mondo di simulacri, di figure, fantasmi e immagini false, rinviando in tal modo a una società sempre più mediatizzata e tecnologica che ha perso i propri punti di riferimento da tempo, mescolando in un’unico indifferenziato pastiche postmoderno il vero con il falso, il concreto con l’astratto, l’epidermico con il virtuale e soprattutto a quella straordinaria e megalomane macchina di falsificazione che è il cinema. Arancia meccanica -come quel Vertigo di cui abbiamo parlato nell’episodio dedicato ad Hitchcock- oggettiva a partire dalla configurazione del visibile messa in scena la natura simulacrale del dispositivo cinematografico e insieme si fa affresco distopico di un mondo che ha definitivamente perduto la propria naturalità per trasformarsi in pura immagine. Tutto nell’universo creato da Kubrick perde la propria consistenza fenomenica e si fa segno che rinvia ad altri segni, linguaggio che rinvia ad altri linguaggi canonizzati, immagine di altre immagini: dalle scenografie costruite palesemente in relazione alla pop art e ad alcune tendenze dell’optical art, alla lingua usata dai protagonisti, che si dà come eteroclito impasto di idiomi diversi, slegato da un reale connessione al fenomenico; dall’artificialità evidente di trucco e costumi all’accumulazione sincretica e falsante dei luoghi in cui perfino l’uomo è ridotto a un miscuglio di plastica e vetroresina (si pensi al Korova Milk Bar costruito attraverso l’accumulazione e la disposizione simmetrica in doppia serie di alcune sculture-manichini di donne nude che fungono da tavolini). In pratica, in Arancia meccanica ogni elemento del visibile è connotato come falso in un riferimento diretto alla natura artificiale, illusiva, falsificante e simulacrale che informa il cinema stesso e al progressivo sciogliersi nel mondo contemporaneo di quella dicotomia positivistica tra carnale e artificiale.
Decisamente opposti gli obbiettivi del successivo Barry Lyndon, cronaca delle (dis)avventure di un giovane irlandese attraverso il ’700 europeo. Mentre Arancia Meccanica si propone come ritratto del falso, ora come in 2001 Kubrick tenta di raccontare con piglio e verità quasi filologiche la storia di un viaggio. Se nel capolavoro del ’68 però il rigore della rappresentazione riguardava i movimenti interspaziali (giudicati realistici dai tecnici della NASA), in questo affresco storico il cineasta tenta di recuperare le atmosfere tipiche del Settecento adoperandosi in un coinvolgimento capillare che lo porta a utilizzare come ispirazione le grandi opere dei paesaggisti del tempo e a filmare attraverso le rivoluzionarie -per il tempo- lenti Zeiss (progettate proprio per la NASA), progettando spesso e volentieri set a lume di candela per recuperare le reali condizioni degli interni angusti di quel secolo. Ne deriva un’opera magnifica ed esteticamente insuperabile, un quadro in movimento mal compreso alla sua uscita, definito sarcasticamente come “una pinacoteca da 11 milioni di dollari”, riscoperto in seguito come la più rigorosa rappresentazione del Settecento mai realizzata al cinema. Lo stesso incedere freddo, distante e lento del film richiama le atmosfere aristocratiche settecentesche di cui il protagonista si ritrova membro, gelidamente impregnate di formalismo, anti-empatia, austerità e in ogni caso rafforza le violente e potentissime fiammate di dolore e sentimento di cui la vita di Barry si colora.

Shining (The Shining), 1980

Dopo l’affresco storico, Kubrick continua il suo disarmonico itinerario tra i generi e approda all’horror, dando vita a Shining, uno dei suoi film più universalmente amati, racconto della discesa negli abissi della follia omicida di Jack Torrance (uno stratosferico Jack Nicholson), scrittore fallito che, insieme alla propria famiglia, si autoesilia con la mansione di custode in un hotel enorme, popolato da strane presenze, forse frutto della sua immaginazione. Il lavoro del cineasta stavolta forza a dismisura le paratie stagne del genere fino ad approdare all’ennesima struttura aperta, priva di reali soluzioni.
Tutto il film si carica di un cupo senso di claustrofobia, di doppiezza strutturale, di soffocamento. Lo spazio fisico è circoscritto e limitante e il tempo, racchiuso in tale labirinto privo d’uscita, sembra perdere un orientamento logico. Il fluire del racconto è intervallato da cartelli che tentano di fissare le immagini su un punto specifico della catena temporale ma con lo scorrere dei frame le indicazioni si fanno sempre più vaghe. A “Un mese dopo” segue “Martedì”, a “Sabato”, “Lunedì”. Ma di quale settimana? Di quale mese? Il tempo si sfibra, diventa esso stesso labirinto, collassa fino ad esplodere nell’ultima enigmatica immagine che mostra su una parete dell’hotel l’impossibile fotografia di una festa degli anni ’20 che ritrae anche il protagonista.
Anche il labile confine tra realtà e irrealtà si spezza e in questo senso diventano estremamente significative le inquadrature allo specchio, in cui la superficie riflettente occupa totalmente lo schermo per poi svelare -tramite un movimento di macchina- di essere solo una copia del reale. Un meccanismo simbolico che allude all’accesso a una dimensione ulteriore: quella del fantasmatico dominata dagli inquietanti spettri che i personaggi incontrano nelle varie stanze o quella dell’isteria folle in cui Jack lentamente scivola.
Nel suo porsi al di là di ogni interpretazione oggettiva, nel suo essere un puro animale filmico grondante di sensazioni, visioni e essenze da cui farsi travolgere, nel suo dichiarare quanto l’impossibilità di (ri)conoscere la verità del reale sia il vero orrore del vivere, Shining si erge come uno degli horror movie (etichetta senza dubbio stretta) più maturi e consapevoli mai realizzati.
Follia e psicosi, profondamente connesse alla terrificante esperienza di disumanizzazione causata dalla guerra, sono peraltro i temi portanti del successivo Full Metal Jacket, titolo che richiama un particolare tipo di pallottole utilizzate dai fucilieri statunitensi negli addestramenti per il Vietnam. Il film, che riporta Kubrick a quella riflessione antimilitarista già centrale in alcuni dei suoi migliori lavori, si caratterizza per una struttura volutamente anomala, distante dai tre atti canonicamente utilizzati negli script statunitensi e imperniata invece su due blocchi distinti e connessi esclusivamente dalla presenza del soldato Joker. Se la prima sezione, consumata in una caserma d’addestramento in cui giovani di ogni estrazione vengono rapidamente trasformati in assassini legalizzati, muove da un ideale di aggregazione, la seconda, che vede i soldati impegnati al fronte, si configura come la successiva dispersione. Tale struttura fondata sulle opposizioni binarie plasma tutti gli elementi del film, oscillante tra la rappresentazione del fascino esercitato sull’animo umano dalla guerra e dal pericolo e il disprezzo verso le aberrazioni del conflitto, tra l’assuefazione disumanizzante che trasforma gli uomini in macchine e gli strenui tentativi di conservare un’identità che sia propria, tra il gesto suicida dell’ormai squilibrato Palla di Lardo e la strenua tattica difensiva della giovane vietnamita nascosta fra le macerie.
Qui -in un’operazione simile a quella compiuta per altri precedenti capolavori-inoltre Kubrick spoglia il Vietnam della sua configurazione tradizionale, eliminando ad esempio riferimenti a quel selvaggio e infernale campo di battaglia che fu la giungla vietnamita (ravvisabile in precedenti straordinari capolavori come Apocalypse now Il cacciatore), enfatizzando così la portata universale e totalizzante della sua polemica anti-bellica.

E infine Eyes wide shut, trasposizione di quel Doppio sogno di Arthur Schnitzler che Kubrick intendeva mettere su celluloide dai tempi di Arancia meccanica. Oggetto impervio e difficoltoso da interpretare, l’ultimo film del maestro americano naturalizzato britannico ripercorre la crisi di una coppia sposata, iniziata dopo un’intima confessione di lei che una notte, dopo una festa, dichiara al marito l’attrazione potente subita nei confronti di un ufficiale anni prima unita a uno sfrenato e inconfessabile desiderio sessuale. L’ammissione della moglie fa crollare le certezze dell’uomo -rispettabile medico- che vaga per una New York notturna, trasformata in un caleidoscopio eterogeneo di tutte le perversioni umane tra puttane, donne sposate, ragazzine ninfomani e ville misteriose fatte di orge e riti massonici. Proprio in questo non-luogo morboso e inquietante, l’uomo viene salvato da una donna in maschera della quale il giorno successivo comincia la ricerca, scoprendone la morte. A questo punto il film apre percorsi multipli senza destare nessuna soluzione definitiva. Non bastano le parole sicure di un amico -che identifica la salvatrice defunta in una donna strappata a un’overdose mortale la sera precedente dallo stesso protagonista- a chiarire il mistero. Kubrick finge di dare una via di scampo che non esiste e confeziona l’ultima struttura aperta possibile, la definitiva messa in atto di quella poetica del labirinto già paradigmatica di film come 2001 e Shining. Se nel primo il labirinto si configurava come il mistero stesso del creato e nel secondo finiva per coincidere con la vertigine della follia, Eyes wide shut si dà come esplorazione di quel groviglio insondabile che è l’inconscio, viaggio confuso e privo di percorsi preferenziali attraverso l’ossessione umana, ultima e radicale presa di coscienza del fatto che, nel momento in cui “nessun sogno è mai soltanto un sogno”, il campo della speculazione si allarga a dismisura, facendosi esso stesso labirinto immenso, sterminato, senza via d’uscita.

Stefano Oddi

FILMOGRAFIA

- Paura e desiderio (Fear and Desire), Stanley Kubrick (1953)

- Il bacio dell’assassino (Killer’s Kiss), Stanley Kubrick (1955)

- Rapina a mano armata (The Killing), Stanley Kubrick (1956)

- Orizzonti di gloria (Paths of Glory), Stanley Kubrick (1957)

- Spartacus (id.), Stanley Kubrick (1960)

- Lolita (id.), Stanley Kubrick (1962)

- Il dottor Stranamore, ovvero: come imparai a non preoccuparmi e ad amare la bomba (Dr. Strangelove or: How I Learned to Stop Worrying and Love the Bomb), Stanley Kubrick (1964)

- 2001: Odissea nello spazio (2001: A Space Odyssey), Stanley Kubrick (1968)

- Arancia meccanica (A Clockwork Orange), Stanley Kubrick (1971)

- Barry Lyndon (id.), Stanley Kubrick (1975)

- Shining (The Shining), Stanley Kubrick (1980)

- Full Metal Jacket (id.), Stanley Kubrick (1987)

- Eyes Wide Shut (id.), Stanley Kubrick (1999)


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