Nello scorso week end ho avuto la possibilità di partecipare al convegno dell'associazione ADAPT “INTERNSHIP AND TRAINEESHIP FOR STUDENTS AND YOUNG PEOPLE: Training, School-To Work Transition or Exploitation?”, una due giorni di interventi e dibattiti per definire cosa sia il tirocinio (o stage) e quali le sue potenzialità.
Potrei riassumere tutti gli interventi di ricercatori italiani ed internazionali, ma non sarei né esaustivo né renderei giustizia all'abilità dei relatori. Potrei invece parlare del mio entusiasmo e del clima di eccezionale scambio culturale che ho percepito, dei live tweeting da parte di tutti i presenti, delle conoscenze fatte durante il week end, ma per rimanere sui temi che a noi sono cari, scriverò quelle che sono state le mie note a margine durante gli interventi.
Data l'ampiezza del discorso, questo sarà il tema non solo del presente, ma anche dei miei prossimi articoli. Consiglio a tutti i lettori che vogliono approfondire il sito di ADAPT dove sono contenuti tutti i documenti e le presentazioni esposte dai relatori.
Del convegno ho potuto apprezzare in primo luogo l'apertura ideologica: nessun preconcetto, come lascia intendere il suo titolo interrogativo, nessuna dicotomia manichea.
Una giusta premessa, per un convegno di ricercatori, ma non abbastanza radicale per chi è in cerca di risposte.
Partiamo da un punto fermo: il contratto di stage (o di tirocinio) non è un contratto di lavoro.
Il rapporto tra stagista e impresa è un rapporto di formazione, in cui il compenso è un semplice rimborso spese.
Questo è particolarmente evidente nel caso di tirocini curriculari, vale a dire quelli svolti durante la formazione scolastica o universitaria. Più complesso è invece il caso di stage attivati nei primi 12 mesi dopo la laurea: ancora formazione o lavoro surrogato?
Il tirocinio, per un'impresa, non è un'assunzione, e nemmeno una sua anticamera, ma un “favore” fatto al tirocinante, è, nelle parole di uno dei relatori, una forma di responsabilità sociale di impresa.
Nessuna scelta legislativa può andare veramente oltre questo punto di vista, quello appunto delle imprese, resta da vedere cosa vogliono le imprese e perché. Vogliono tutte davvero fare formazione?
Ho ascoltato gli interventi di grandi gruppi industriali come ENEL, IKEA e Bosch e sono davvero convinto che all'interno di queste aziende il tirocinante possa davvero apprendere, se non il mestiere, almeno come comportarsi sul posto di lavoro – parola di ENEL.
Ho più dubbi quando penso alle PMI, a imprese con meno di 15 dipendenti che attivano uno stage. Davvero un imprenditore così piccolo può permettersi di sacrificare un dipendente per la formazione di un giovane solo per senso di responsabilità civile? E d'altro canto, chiarito che lo stage non è un contratto di inserimento, come giustificare la promessa di una futura assunzione?
Punti oscuri, che nel corso del convegno hanno trovato, se non una risposta precisa, più di un'indicazione per poter far luce su questa delicata questione.
Simone Caroli