Stanno finendo quelli che hanno camminato senza scarpe

Da Iomemestessa

Ieri sera, ore 23.30, mi arriva una mail. Di lavoro. Ero a letto. Leggevo. D’istinto, rispondo. Un riflesso condizionato, come le galline di Pavlov.

Me la mandava un cliente, posizionato sullo stesso fuso orario mio. Nulla che cambiasse i destini dell’umanità. Nulla che non potesse tranquillamente essere affrontato oggi. E pure con calma. La mia risposta, era inconcludente, quanto la sua domanda. A conferma che, come biologia insegna, i coglioni, per essere performanti, devono essere due. Nello specifico caso, uno che scrive e l’altro che risponde.

Non è cosa inconsueta, quella descritta. Ma ieri sera ho avuto un flash. La tecnologia, di cui siamo circondati, ci ha amabilmente fottuti. Lentamente e senza che ce ne rendessimo conto.

Non scomodiamo i nostri nonni. Anche solo i nostri genitori, vent’anni fa appena, alle 23.30, trombavano. Oppure dormivano. Dopo aver trombato. Difetterò di poesia, ma tant’è. Lavoravano le loro otto, anche dieci, ore al giorno, e poi rientravano nella loro vita. Noi, tra i-phone, i-pad, i-minchia, siamo sempre in servizio permanente effettivo.

Epperò, che ci furono giorni diversi, lo ricordiamo, almeno. I nostri figli non avranno nemmeno quello, il ricordo. E non so se riusciremo a trasmetterglielo. Perchè anche a parlargliene, e gliene parleremo, certo, sembrerà loro talmente irreale da entrare a buon diritto tra le fiabe. Il nostro passato alla stregua di Cenerentola.

Come raccontare che una volta, non solo non c’era lo smartphone, ma che il primo cellulare, entrato in commercio che già finivo le superiori (e totalmente fuori dalla mia portata, of course), pesava come una mattonella, costava come una barra di plutonio arricchito, e telefonava e basta (manco gli sms, mandava). Vent’anni dopo, sul cazzo di smartphone ci carico financo le carte di imbarco degli aerei, per dire.

Come raccontare che una volta non solo non c’erano le caldaie a condensazione, e le valvole termostatiche che mantengono la temperatura costante in tutta la casa, ma che nelle case di campagna, i nonni, spesso e volentieri (per abitudine al risparmio, più che per indigenza, in effetti) d’inverno scaldavano solo la cucina, con la stufa a cherosene. Cucina in cui la temperatura media era quella della Giamaica. Il problema era che quando uscivi dalla cucina, che talora dovevi pur pisciare, e rischiavi di crepare stroncato dal delta termico. Se rompevi le palle, ti dicevano di metterti un’altra maglia, e di finirla lì.

Come raccontare che una volta non solo non c’erano le gomme termiche (e se nevicava ti mettevi le catene, e non rompevi tanto i coglioni, oppure lasciavi giù la macchina e andavi a piedi), ma che le macchine non avevano nè l’idroguida nè il servosterzo. E a far manovra da fermi, con certe utilitarie, ti venivan dei bicipiti che parevi un culturista.

Che d’estate, se faceva caldo, dicevi ‘che caldo’ e te ne facevi una ragione. Adesso dici che caldo e cerchi il telecomando del condizionatore. Ed entri in certi uffici e il primo pensiero è ‘cazzo. ci son 18 gradi. fa più caldo d’inverno qua dentro. E d’inverno non giro senza calze, in sandali e col vestitino sbracciato.’

E sai cosa hai lasciato, e anche cosa hai trovato. E pensi che il saldo, alla fine, è stato anche positivo. Però rifletti sul fatto che non riuscirai mai a trasmettergli quel senso di semplicità e leggerezza, di quando tutto sembrava lineare, anche quando non lo era.