Sommers alle prese coi giocattolini della Hasbro. Dopo Transformers e sequels di Michael Bay, catastrofico regista dalle poco evidenti capacità di “scrittura” di film vuoti dall’inizio alla fine, la moda del momento continua, tra feticismo del gadget ed assuefazione da effetti speciali, armi e contrarmi, scellerate scelte di copione ed attori tra lo sconosciuto ed il noto, sempre pessimi, tranne piccole eccezioni. Se Megan Fox guadagna la palma di peggior attrice esistente in Transformers, coadiuvata da uno Shia LaBeouf monocromatico e monoespressione,
G.I. Joe risponde con Channing Tatum, che sembra uscito da qualche spot tra l’integratore e lo scalda-drizza-muscoli e con la pompatissima Sienna Miller, un’altra promessa mancata, con all’attivo un film più brutto dell’altro (tra “Alfie”, penoso remake e “Factory Girl”, biopic insulsa), che ha pure il coraggio di criticare, nonostante il compenso, il film di cui è coprotagonista, definito un “giocattolo” che non esalta le sue doti di attrice. G.I Joe non ha nulla di artistico, è un blockbuster usa e getta, da cinema, almeno per cogliere qua e là qualche commento e per non uscirne disintegrati da una visione in dvd a spezzoni, tanto più non si capisce cosa Sienna Miller volesse esprimere con dichiarazioni tanto acide quanto a doppio taglio. Sommers si affida a tanti sceneggiatori, speranzoso di un’unica ovvietà: il successo worldwide, i primati, il box-office. E’ molto difficile esprimersi su un film come questo, in primis perché l’elemento tecnico, peraltro scarso, del digitale, le cui ricostruzioni sono sì precise ma molto clippare e poco realistiche, è dominante, e poi perché pone una domanda a cui è complesso rispondere, partendo dalla dicotomia cinema-arte, cinema-enterteinment. E’ chiaro che serva una contestualizzazione di genere, ma l’elemento pubblicitario ed economico sembra troppo dominante per un film che, a differenza di Iron Man o di pregevoli prodotti, non ha dalla sua nessuna caratteristica che permetta un minimo di considerazione, lungi da una fruibilità scanzonata. Ci sono momenti che sfiorano il ridicolo, a cui si aggiunge un certo fastidio da action poco matura. Ma il peso più gravoso è quello interpretativo, perché il soggetto, mutuaota dai giochi e dalla serie animata, ha quel qualcosa in più dei Transformers ridicoli di Bay e la regia può essere perdonata in virtù della mancanza di autocompiacimento. Se la cavano Rachel Nichols, veterana del genere e Joseph Gordon-Levitt, Dennis Quaid è la parodia di sè stesso. Per il resto, un prodotto che non ha alcun contenuto, senza smalto o irriverenza, con flashbacks troppo lunghi o troppo frammentari, un intreccio chiaro ma scontato dalla prima inquadratura e sentimenti fittizi. E’ un tipo di cinema non amato dai puristi, adatto a chi ha una passione sfrenata per un meltin’pot di generi, sospesi nel nulla, a chi vuole un “giocattolo” tanto esplosivo quanto innocuo. Come i giocattolini d’infanzia, con le armi di plastica, magari di gomma per i bimbi più piccoli. E’ un film che rimane bambino, e nell’affrontare l’adulto che è la sala cinematografica, ne perde in organicità e simpatia, con lo stucchevole rimando al seguito per un cambiamento di rotta magari o per una continuazione frivola. Sempre che si parli di giocattoli, e senza sentire le dichiarazioni degli interessati che calcano la mano su mezzi segreti da guerra esistenti nella realtà a cui il film si ispira (lasciamo il beneficio del dubbio) o sulla nanotecnologia.