Presentato alla 65 edizione del Festival di Venezia in Concorso
“Il seme della discordia” non è un bel film. Così risponderebbe la critica “italica”, assuefatta da drammoni e rivalutatrice di commedie senza senso. Dialoghi banali, accesi da qualche fumo nocivo, nonostante l’ispirazione letteraria che già Rohmer aveva “adattato”, intreccio elementare, non del tutto prevedibile, citazionismo, dubbio di mancanza di idee. In realtà, nel pattume italiano, Corsicato è un piccolo genietto, un folletto, dalla grande cultura mediata dall’istintiva popolana napoletana. Il “seme della discordia” è meno riuscito di “Chimera” ma ha una dote avulsa ad un cinema vecchio, sentimentale, passatista: sa essere leggero e vuoto, senza scorrere via con un pianto facile o uno stomachevole groppone, e senza sganasciarsi per il gatto panciuto che vola, gonfio di aria compressa, e senza perdere la corposità di un grande testo, attuale come pochi. Inoltre è un film dal forte afflato visivo. E’ molto facile imbastire la sceneggiatura di routine, di sproloqui senza senso, di digressioni critiche, di filosofia, di psicologia, senza essere né corretti né adeguati, in nome della libertà di espressione, molto più complessa la semplicità di un intreccio che non si scinde, ma si rende servo di un’espressione visiva di impatto, colori marcati, riferimenti storici-di costume (“Swinging London”), senza esserne avulso. E’ la capacità di unire alla parola, una gamma di possibilità sensitive che il cinema, di rado, rinviene. Si cominci a caratterizzare Corsicato per ciò che è, indipendentemente dal paragone con Almodòvar. L’aspetto che più li accomuna è la forte etnicità dei loro film, che sia essa reale (con una Spagna moderna ed antica) o prettamente artificiale (una Napoli che non avevamo mai visto, quella del centro direzionale, gelida ed onirica, fantascientifica). Corsicato è più sfaccettato nella sua semplicità, meno sovraccarico, più visionario e colto. E’ geniale citare grandi classici come la Corazzata Potëmkin e Via col Vento fuori contesto, geniale creare un mondo completamente disarcionato dalla realtà, eppure così vicino ad essa. I caratteri non sono veritieri? Probabilmente lo sono più di altri, filtrati dall’artificialità dello schermo, che non ci permette di coglierne ogni aspetto. Manca il pathos, la drammaticità, ma è una caratteristica che dipende non dalla reale psicologia dei personaggi, ma da una precisa scelta di genere: la commedia e non il dramma, non inseribili contemporaneamente, se non sotto la superficie di un vuoto in realtà corposo. Corsicato non è pessimista, è realista, e tratta lo stupro, come altri hanno scritto, come possibilità, dolorosa in sottofondo, non nel film, di crescere. Sembra convinto della possibilità dell’uomo di vivere, comunque. C’è chi legge una certa corrosività, di certo presente, ma è un aspetto parziale e non unico nell’ottica di esprimere un certo modo di vedere le cose. Le sequenze vengono accompagnate da motivetti facili, reinterpretazioni di grandi classici, l’eccentricità è armonica, il ritmo scanzonato, non ovvio, coinvolgente. E’ un Carnevale che esprime forza rinnovatrice e tradizionalismo becero, kitsch e classe, sovvertimento di ogni cosa, sole ed ombra. Caterina Murino è splendida, Isabella Ferrari gravida di figli e di consigli, Gassman piacevolmente mutevole tra il suo fisico e le sue prestazioni, Martina Stella al primo ruolo riuscito, Valeria Fabrizi all’ennesimo ruolo riuscito, Venitucci esordiente. Consigliato agli stralunati ed eccentrici sostenitori di un cinema vecchio e nuovo, ai grafici pubblicitari e ai designer (ci sono delle riprese che sembrano spot con jingles).