L’ipnotista, un film di Lasse Hallström. Rai Movie, ore 21,15.
L’ipnotista, regia di Lasse Hallström. Con Tobias Zilliacus, Mikael Persbrandt, Lena Olin, Helena Af Sandeberg, Oscar Petersson.
Un’altra storia di delitti e misteri familiari dalla Svezia, genere ormai ampiamente collaudato. Il film (che segna il ritorno in patria del Lasse Hallström di Chocolat) incomincia in modo debitamente inquietante e malsano, con scene che ti fanno sentire l’odore dl sangue e del male. Poi arriva il peggior personaggio femminile del cinema recente, ed è finita. Voto 5
Questo non eccelso thrillerone venuto dal Nord ghiacciato si ricorderà soprattutto per il peggior personaggio femmminile dell’ultima decade, una moglie così rompicoglioni e isterica da giustificare i peggiori pregiudizi maschilisti. Sempre lì a rinfacciare al povero marito, un brav’uomo che fa lo strano mestiere dell’ipnotista, un trascorso tradimento con una medichessa assai carina, che ti chiedi come mai lui l’abbia poi mollata, la medichessa, per tornare da quella demente. Sarà per via del loro bambinello emofiliaco, e dunque particolarmente bisognoso di cure e affetti genitoriali (bambino che a un certo punto della storia verrà rapito). Il bello è che il regista Lasse Hallström ha chiamato a interpretare la suddetta rompiballe la propria moglie Lena Olin, e qua ci vorrebbe una di quelle analisi di coppia freudian-bergmaniane per capire cosa ci sia sotto e dietro. Hallström, si diceva. Regista made in Sweden poi emigrato dalle parti di Hollywood per produzioni sempre sospese tra mainstream e finta autorialità, intendo cose e anche cosacce spesso sopravvalutate come Chocolat, Le regole della casa del sidro, Achiko e il più recente, tremendo, Il pescatore di sogni, chissà perché assai ben accolto da critici e spettatori americani: tutti film furbetti e di sentimentalismo espanso a uso del pubblico in particolare femminile. Dopo svariati anni di emigrazione in terra d’America è tornata a casa, in Svezia, per girare proprio questo L’ipnotista, un giallone tratto dal solito bestseller scandinavo di delitti e ghiacci e varie perversioni (ormai un genere consolidatissimo che comincia a venire in uggia, diciamolo) e la cosa è abbastanza strana, perché Hallström non ha mai mostrato particolari predilezioni per il noir, il thriller, il cinema di investigazione, il poliziesco. Per cavarsela se la cava, da mestierante rotto a tutto, e i limiti evidentissimi del film non sono tanto imputabili a lui, ma al plot originario che mescola ottime intuizioni, e atmosfere debitamente fosche e ambigue, a sciagurati slittamenti nell’inverosimile e nell’involontario demenziale. Eppure il romanzo di Lars Kepler, pubblicato in Italia da Longanesi, godeva di ottima fama, soprattutto nell’anglosfera, tanto da essere stato inserito non ricordo più da quale giornale inglese nella lista dei dieci migliori libri del suo anno di uscita. Mah. Non l’ho letto, e il film non mi ha certo invogliato a prenderlo in mano (o a scaricarlo sul tablet). Tuttavia non si incomincia male (parlo del film), con climi debitamente malsani e torbidi, e delitti in cui van di mezzo anche infanti innocenti sul divano, e mamme riverse sul pavimento, con cani che sguazzano in quell’immondezzaio di sangue e altro materiale organico. Ecco, le prime scene, l’omicidio in palestra e il rinvenimento della famigliola massacrata, sono adeguatamente girate, sono un’ottima e promettente intro per una discesa agli inferi, ti fanno sentire non solo l’odore del sangue e del male. Unico sopravvissuto alla strage in un lindo villino suburbano è un ragazzino, però ferito e in coma. Mannaggia, è l’unico preziosissimo testimone, come faccio a interrogarlo e cavarne qualche info preziosa sull’assassino?, si dispera il buon commissario Joona Linna, un tipetto biondo dall’occhio vispo e chiaro (ovvio, siamo al Nord: lo interpreta un attore di cui potremmo ancora sentire parlare, il finlandese Tobias Zilliacus). Poi – ideona – qualcuno gli suggerisce di chiamare un famoso ipnotista acciocchè estragga dall’inconscio del ragazzino in coma qualche indizio utile a identificare il mostro. Ecco, qua purtroppo facciamo conoscenza con la moglie isterica dell’ipnotista, e il film comincia a perdere colpi. Ne perde ancora di più quando il ragazzino, benchè in coma, incomincia a farfugliare, parlottare, poi perfino a muoversi, poi si alza e a vaga per la città, e insomma signora mia proprio non ci si raccapezza più. Il primo botto, la prima rivelazione che arriva grazie alla doppia inchiesta (del poliziotto e del’ipnotista) – ed è un qualcosa tra Il signore delle mosche e Il nastro bianco di Haneke – è notevole davvero, un pugno forte nello stomaco, poi però L’ipnotista si sfilaccia, si affloscia, si inabissa nelle convenzioni narrative del genere giallo, il dovere a tutti i costi scioccare e sorprendere e spiazzare il lettore con rovesciamenti continui, depistaggi, innocenti che sembran colpevoli e colpevoli che sembrano innocenti, colpi di scena: anche a costo di ogni attendibilità e buon senso. L’idea di base – l’ipnosi come strumento di investigazione, di prospezione e rilevazione di ciò che giace nel profondo – anche se non nuova funziona sempre bene (vi ha fatto ricorso un paio di anni fa anche Danny Boyle in Trance). Peccato che qui sia applicata grossolanamente e senza il minimo sprezzo del ridicolo, con incongruenze che gridano vendetta. La Svezia fa sempre la sua sporca figura come sfondo di storie maledette di famiglia, e il sangue schizzato sulle neve, si sa, al cinema vien sempre bene.