E, nel percorso, sbocciare e tragedia, vita tutta, fino allo scarico dell’iva, forzearmate.org, Caparezza, la pornopalus, la coop, la moto di biagi, il dottor gibò, l’oca in parlamento…
Queste sono le impressioni a caldo che mi assalgono leggendo i primi testi della raccolta, in cui Guglielmin espone il nocciolo della sua poesia a partire dal corpo (femmina, madre, tutto) corpo che recintava lo spazio della sua opera di maggior respiro “La distanza immedicata” e poi, con risvolti di altra natura, “C’è bufera dentro la madre“, poemetto ripreso in questo libro.
E vorrei azzardare, in funzione di metatesto, l’eventualità che la sua poesia si giochi tutta nel divario, o più tragicamente, nella rottura, realizzata dalla forza maschio (mundus), nel corpo della femmina, terra acquatica del creare (Kar, fare).
“L’acqua è l’elemento femminile materno, l’archetipo iniziale per eccellenza. Ed è con un poema d’acque, scandito lungo decorsi fluviali tra le rive dei nomi, che Stefano Guglielmin ci aveva lasciato alla sua (fino ad oggi) ultima raccolta: La distanza immedicata. (Paolo Donini nell’introduzione).
In questo modo, la rottura dell’uovo, causa un dire discosto, corrusco; c’è una forza cantilenante nei testi di Guglielmin, da intendersi anche come esercizio fatico, nominativo, non senza una certa dose non dichiarata di nostalgia del corpo infranto, ma anche di una forma tonda, imparentata, più di quanto non possa sembrare, con la tradizione della lingua.
La scrittura, quindi, chiudendosi, si protegge dalla dispersione, custodisce i suoi semi dallo scandalo del tempo, a cui, però, continuamente ritorna, altrimenti sarebbe impossibile il cantare, la bufera nel corpo della madre; va e viene da due mondi, in aspetto di Marte Gradivo e di Eros che emerge dall’uovo, scombinando e ricomponendo: – “la beata bestia che il bene dentro/ti scompiglia (…) l’animale quieto, che stagiona e riparte e ancora plana/riposa, e di nuovo s’invola, ma solo”. -
Del resto, che il tema riguardi l’intrusione del maschio in un corpo/mente di altro stampo, lo dichiara apertamente, senza mezzi termini, lo stesso Guglielmin: “la bestia oscena/ del maschio disumano lanciato contro la femmina/motrice, chimera che spaura perchè più dell’uomo penetra/più di lui domina la scena”.
Parola, dunque, che scaturisce dall’instabile rapporto tra quiete e calma, nel grande gruviera primordiale che è rimasto il mondo, dove i due principi installano altarini per recitare uno spettacolo di incontri e sdoppiamenti: il maschio anela al “lo stare quieto della scapola nel corpo tuo che fascia, tondo/sulla slogatura del prato”.
“Poesia significa, qui, stare fermo/ sulla giostra, darsi pace naufragando”, perchè “non c’è canto (…) il corpo/talvolta, parla da solo, ama il fango/più della luce e cancellare tracce/darsi malato…”.
Contro questo sentimento di rinuncia, di ritorno nel grande corpo caldo della femmina, irrompe il mondo, con tutta la carica grottesca della sua disarmonia, sfalda la barriera metaletteraria e si assesta nei risvolti di una lingua nervosa, barocca, forse col desiderio quantomeno di ferire, di schernire:
offresi compagnia casta a signora perversa.
regalo topolino bianco sodomita, vera occasione.
cedo parete nord con carezze artiche.
cerco lingua ruvida che solluccheri. no yeti.
scrivo poesie e porcate. regalo balbettio
d’amore a legionario di bergerac. insegno carattere
orale, anale e cuneiforme. uomo pigro offresi
per pausa pranzo.
Sebastiano Aglieco
***
Il corpo, talvolta
Pare che il corpo consista
in tante piccole buche, in vuoti vicini,
in imbuti, dove la vita si versa
e scompare. Scroscia invece in quella gora
il volo largo della specie, la spina
che volta in salvia il lutto, e di fa chiari.
p. 19
***
Come qualcosa che chiami
Piccola talpa tu sei, felice
di sbiadire per tre lire di moto
in terra, mentre dici: ” nulla da cambiare,
amore
da temere” nella tua grande tana, in quella
polpa da cui vegli a morsi il giorno
e vita in premio strappi
come qualcosa che improvvisa slarghi
dentro il monte o chiami, lontana.
p.20
***
Essere uno, essere due
Lo stare quieto della scapola
nel corpo tuo che fascia, tondo
sulla slogatura del prato
mentre si screpola il giorno
al pane nostro fiato
finalmente uno in questa buca
celeste, in questo andare che ruota
e non ha fondo.
p. 21
***
Voglio dire
…
E comunque mi chiedo: meglio D’Elia, il poeta
che chiama padre Pasolini, o Lina, la bianca pollastra
di Saba, regina serena tra le braccia di Dio?
Ed è più degno il legno o l’amianto, il corpo teso
del discobolo o quello di chi muove all’obolo
il marmo o il karma, o la Marna, invece, che è roccia
sedimentaria e la prima forma di trincea precaria
dove ricevere la qualità dei tempi e far poesia
come ripete, in Laborintus, il caro estinto
alla vigilia della rivoluzione (linguistica, almeno
e meno fascista dunque) quando al cottolengo
si votava, e senza vergogna, pare. D’altro canto
nemmeno il comunismo s’ha da fare, in quel frangente
ma da dire, appunto o, meglio, in contrappunto
s’ha da smontare.
…
p.40
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