Steve McQueen: 12 anni schiavo
Creato il 20 febbraio 2014 da I Cineuforici
@ICineuforici
12 ANNI SCHIAVO
(Usa 2013, 134 min., col., drammatico)
La parabola ascendente di Steve McQueen, stando ai più, ha raggiunto con 12 anni schiavo il suo apice: unanimità della critica, Oscar assicurati e successo di pubblico. Per I Cineuforici, o quantomeno per il sottoscritto, si è trattato, invece, di una brusca frenata nella carriera del regista inglese.
Prima della guerra di secessione, nel 1841, Solomon Northrup (Chiwetel Ejiofor), un violinista di talento, è ingannato da due pseudo agenti di spettacolo. Ridotto in schiavitù, privato della sua identità e della sua famiglia, sarà trasportato in Louisiana, dove lavorerà in condizioni estreme per tre schiavisti senza scrupoli. Liberato in maniera fortunosa nel 1853, potrà ritrovare la famiglia e scrivere le sue memorie da cui è tratta la pellicola.
Dopo il lungometraggio di esordio Hunger, Steve McQueen entrava nella categoria dei registi da “tenere sott’occhio”. Il suo ritratto profondo, toccante e allucinante, sulla condizione di vita nel carcere nordirlandese di un prigioniero politico (interpretato da uno smagrito Michael Fassbender), si abbinava magistralmente all’estetica fredda, grigia e ombrosa della prigione (non si può non dimenticare, inoltre, il piano sequenza di diciassette minuti che esalta il dialogo del protagonista con il sacerdote). Il film fu seguito da Shame, un’altra mattonella importante nella giovane carriera registica di McQueen. La pellicola, interpretata nuovamente da Michael Fassbender, non fece l’unanimità, ma permise all’attore di vincere la Coppa Volpi a Venezia. I Cineuforici, a suo tempo, apprezzarono il lavoro di McQueen, caratterizzato tra l’altro da questa estetica newyorkese fredda e grigiastra.
Ora è uscito 12 anni schiavo sempre con Michael Fassbender ma questa volta nel ruolo del cattivo. Senza mezzi termini o giri di parole è possibile sostenere che si tratta di una buona pellicola, ma una domanda sorge spontanea: “Da un regista come Steve McQueen, possiamo accontentarci dell’aggettivo ‘buono’?”. La domanda è retorica e la risposta evidente. Quando si esce dalla sala, si ha l’impressione di aver visto, ancora una volta, una furbata hollywoodiana (Dallas Buyers Club, e così rispondo a eventuali critiche, era sulla stessa scia, ma il regista – senza offesa – non aveva realizzato precedentemente Hunger e Shame). Non si è di fronte al salto di qualità tanto sbandierato, ma al salto di quantità (di soldi, s’intende).
Già dal substrato si capisce qual è l’andazzo: schiavi di colore in un’America razzista e clima da pre-guerra di secessione fanno presagire il peggio, ossia a un nuovo film commemorativo e di autoflagellazione per le colpe e i misfatti passati. L’approccio è quello classico, da grande film hollywoodiano in cerca di lacrime facili, buoni sentimenti, riscatto sociale e condanna ufficiale del vissuto statunitense. Tutto ciò non si è già visto almeno un miliardo di volte? A quanto pare, no. Almeno Quentin Tarantino, nel suo discutibile Django Unchained, aveva avuto l’onestà di voltare pagina, girando un western ironico e sanguinolento sullo schiavismo. Steve McQueen, o almeno i suoi produttori (guarda un po’ c’è anche Brad Pitt come produttore, non disdegnando di comparire anche nel ruolo chiave di un abolizionista convinto in ben dieci minuti di film), non volta pagina e ritorna al classico: una trama lineare, personaggi manichei, ridondanza della musica e pathos a volontà. Tutti possono, così, piangere il proprio terribile passato: meriterebbe l’Oscar.
Fortunatamente, il regista inglese lascia qualche frammento di bravura e di autorialità raffinata in questa torta preconfezionata, quasi a lasciare il segno in un’opera forse non propriamente sua (è la nostra unica speranza). La sequenza da brivido della “semi-impiccagione” ricorda i momenti migliori di Hunger: intensità dell’azione, freddezza nel mostrarla e durata infinita. Due scagnozzi (uno dei quali è il redivivo Paul Dano) dello schiavista di turno, tentano d’impiccare Solomon, ma sono fermati a tempo da un terzo individuo che salva “parzialmente” il protagonista. Parzialmente, perché lo lascia comunque appeso all’albero con le sole punte dei piedi a terra, in un equilibrio precario fra la vita e la morte. Perché questa sequenza è così importante a livello cinematografico? A livello estetico e sul piano simbolico trafiggono lo spettatore, lasciandolo con un ricordo struggente. L’inquadratura è fissa e in campo totale. La visione, per il fruitore, è forse leggermente più ampia che su un palcoscenico teatrale. Solomon, circa al centro dell’inquadratura, agonizza fra la vita e la morte soffocato dai suoi stessi rantoli. Egli non si trova in primo piano, ma più in profondità; tracciando una linea immaginaria, possiamo dire che il protagonista si situa à metà fra l’occhio dello spettatore e l’orizzonte. Ora, perché Steve McQueen decide di mostrare la sofferenza in campo lungo e non in primissimo piano? Ciò che gli interessa è ciò che ruota intorno a Solomon e non il suo volto.
Il clima è da “La quiete dopo la tempesta” di Leopardi. Infuria il “temporale” e due uomini vogliono impiccare il protagonista. Oltre agli alberi e al prato, si vedono e si “sentono” solo i tre personaggi, appena fuori la dimora dello schiavista. Non appena l’atto è fermato sul nascere e Solomon rimane solo, una bizzarra e contraddittoria quiete permane nell’aria: schiavista e razzista è anche l’ambiente, non solo l’uomo. Questo stato d’indifferenza naturale lascia il segno sullo spettatore. Come emerge da “La quiete dopo la tempesta”, si è più a suo agio dopo la violenza dell’intemperia. Questa calma, però, è solo apparente, perché non appena la Natura potrà, si scatenerà di nuovo. La fase di quieta indifferenza, insomma, non è vera tranquillità, ma forse la massima espressione del razzismo sociale e ambientale. Il quadro naturale che ci mostra McQueen in questa sequenza, è più significativo del facile primo piano. Il regista rincara la dose e, mantenendo la stessa inquadratura, fa “recitare” sullo sfondo, come personaggi di un’operetta, gli altri schiavi che, dopo la “tempesta dei bianchi”, ritornano alle loro mansioni. Inutile dire che sconvolge l’indifferenza, dovuta in questo caso alla paura, delle altre persone sullo sfondo. Tutta questa forza nell’immagine non sarebbe stata possibile con un primo piano.
La quiete dopo la tempesta è solo apparente. Speriamo sia lo stesso per la carriera di McQueen.
Mattia Giannone
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