Tutto questo rispettabile “background” gli ha permesso di riempire in ogni ordine di posto , per tacere di quelli rimasti fuori nella speranza di impossessarsi all'ultimo secondo di un prezioso tagliando, il magnifico e storico teatro Dal Verme di Milano, una sala a ferro di cavallo con due ordini di palchi ed un loggione che contiene comodamente più di 1.400 persone e soprattutto che ha un'acustica a dir poco eccezionale tanto da essere un punto di riferimento a Milano per i concerti di musica classica. Non ho remore a dire che dal punto di vista prettamente tecnico sia stato di gran lunga il miglior concerto cui abbia assistito, ma avrò tempo di parlarne con calma più in là. E' di quest'anno l'uscita dell'ultimo progetto solista di Steven Wilson “Hand.Cannot.Erase.” a mio parere il suo album migliore e più completo che si distacca in molte parti dagli stilemi del progrock del suo precedente lavoro per abbracciare, o per dir meglio per esaltare, la sua ricerca intrisa di inevitabili contaminazioni. E' notorio che Steven Wilson ami maggiormente lavorare in studio piuttosto che dal vivo ed è forse per questo che la riproposizione “live” dei suoi pezzi sia in realtà molto fedele a quanto inciso su supporto magnetico; tuttavia la ricerca quasi maniacale della perfezione lo porta in maniera automatica alla costruzione di uno show completo, appagante, intenso, sempre attento anche ai minimi particolari, ad esempio sappiate che dal vivo suona a piedi nudi, non certo per vezzo ma, a suo dire, per avere maggiore sensibilità con la pedaliera degli effetti. Non credo quindi sia stata casuale la scelta dei teatri acusticamente perfetti per le due date del tour italiano, il Dal Verme a Milano e il Sistina a Roma (esauriti da tempo anche questi 1.500 posti per l'esibizione del 31 marzo), Il concerto è fissato per le 21 e cinque minuti prima parte in sottofondo una versione dilatata dell'intro al piano di “First Regret” che apre il suo ultimo album che sarà poi il fulcro dell'intera esibizione. La gente in sala non è pronta, fuori stanno premendo gli ultimi ritardatari e quelli che hanno rimediato i biglietti all'ultimo minuto; le luci sono spente ma il viavai dentro il teatro è notevole, Wilson e il suo gruppo salgono sul palco ed attaccano “3 Years Older” alle 21 precise senza minimamente preoccuparsi se la situazione in platea sia ottimale o meno; qualcuno, per non disturbare, non trovando il suo posto, si siederà momentaneamente sui gradoni. Come potrete facilmente immaginare, il nostro è dotato di un certo caratterino e non gradisce le riprese del concerto o semplici foto durante l'esibizione, quindi in sala sono disseminate una pletora di belle ragazze in divisa che non appena vedono apparire la fioca luce di qualche piccolo schermo non autorizzato si affannano, in verità con buone maniere, a “consigliare” di spegnere il cellulare. Nonostante quindi qualche piccolo inconveniente la sinergia tra chi propone e chi assiste è completa ed è altresì garantita la totale immersione nello spettacolo perché è proprio di spettacolo a tutto tondo, e non solo di concerto, che andrò a riferire. “Hand.Cannot.Erase.” è un concept album incentrato sull'incredibile vicenda della trentottenne inglese Joyce Carol Vincent trovata cadavere nel 2006 nel suo appartamento di Londra dove viveva sola; la sua morte naturale risaliva a più di due anni prima infatti stava facendo i pacchetti regalo da dare agli amici per il Natale 2003, ma nessuno si era mai fatto carico di segnalare la sua scomparsa nonostante fosse carina e dotata di buon carattere, avesse delle sorelle, dei colleghi, dei compagni, degli ex fidanzati quindi una vita sociale non proprio da monaca di clausura. Il suo corpo fu scoperto perché dopo un paio d'anni di mancato pagamento dell'affitto qualcuno si presentò alla porta per consegnarle un avviso di sfratto e si trovò di fronte ad uno spettacolo agghiacciante con la tv ancora accesa vicino allo scheletro di Joyce Carol. Segnali quindi di effettiva solitudine ma, soprattutto, di un gelido, sconcertante e assoluto “menefreghismo”. Tutto ciò ha profondamente colpito Steven Wilson che dopo aver visto il documentario che trattava di questa paradossale vicenda ha deciso di costruirci sopra un “concept” album. L'esecuzione live di “Hand.Cannot.Erase”è proposta in maniera rigorosamente filologica e quindi “3 Years Older” che apre le danze, se escludiamo l'intro di “First Regret”, viene immediatamente eseguita con la magnificenza che merita essendo uno dei due pezzi più smaccatamente prog, l'altro è “Ancestral”, risultando in qualche parte un tributo nemmeno troppo velato ai Genesis di “The Cinema Show”. L'enorme schermo cinematografico posto all'estremità del palco propone immagini che non si possono definire unicamente complementari perché spesso interagendo perfettamente con le luci dello show si appropriano del diritto di protagonismo fino a quando, sedotte dalle magnifiche alchimie musicali di Wilson e la sua band, ritornano giudiziosamente in secondo piano. Una trovata tipicamente “pinkfloydiana”, ma come vedremo poi si andrà ben oltre. Con “Hand. Cannot. Erase.” la title track, Wilson abbandona il progressive per concentrasi maggiormente su una magnifica pop song di stampo tipicamente britannico che fa da apripista al primo vero sobbalzo per chi ascolta: l'ostentazione del trip-hop di “Perfect life”. Chi non conosce il nuovo album sussulta un poco sulla poltrona, ma poi ben presto si convince che anche fuori dal contesto prog Steven è una stella di primaria grandezza e ritorna a godersi lo spettacolo. La successiva ”Routine” richiama nuovamente i Genesis o per dir meglio i lavori solo di Steve Hackett, dove la storia, ma soprattutto la reale solitudine della Jones, è narrata dalla voce, e purtroppo non dalla presenza perché in dolce attesa, dell'artista israeliana Ninet Tayeb. Con il successivo brano si ritorna indietro di quattro anni con una versione molto dark di “Index” da “Grace for Drowing” che paralizza letteralmente tutti quanti... "...If I collected you and put you in a little cage I could take you out and study you every day It isn’t easy being me, it’s kind of lonely work My obligation to collecting is my only thirst." Dopo la breve digressione si ritorna all'album nuovo con la durissima e martellante epicità di “Home invasion”, che ben si adatta alla dimensione live perchè la band può scatenarsi mollando qualsiasi freno inibitorio, seguita dalla fantastica e onirica “Regret #9” uno dei momenti migliori dell'album, un brano assolutamente dominato dal magnifico lavoro al synth di Adam Holzman...brividi e peli ritti a profusione sulle braccia. E qui prendo la palla al balzo per menzionare il gruppo che accompagna Wilson perché la loro professionalità, bravura e calore è un valore aggiunto mica da poco. Detto per inciso che Steven oltre a cantare, suona il basso, la chitarra acustica e quella elettrica, le tastiere, il dulcimer, il banjo ed è anche l'artefice di tutta la programmazione e gli effetti computerizzati, diamo finalmente spazio anche agli altri motivatissimi primi attori: Guthrie Govan ( The Aristocrats, Asia) alla chitarra elettrica, Nick Beggs (Steve Hackett, Steve Howe, Midge Ure) al basso e Chapman stick, il fantastico Adam Holzman (Miles Davis, Brave New World, Fents) al piano, synth, mellotron, hammond ed infine il tedesco Marco Minneman (The Aristocrats, Joe Satriani) considerato da molti come il miglior batterista rock degli anni duemila e che, parere personale, fortunatamente evita gli asessuati Dream Theater per riunirsi ancora una volta a Steven Wilson. Per la sola data di Londra del 13 marzo scorso si unirà al gruppo anche Theo Travis (Tangent, Gong) ai fiati. Dopo i brividi di “Regret#9”, quasi a voler stemperare un attimo la tensione indotta e il pathos diffuso a profusione, arrivano in sequenza “Lazarus” un vecchio brano dei Porcupine Tree che ha la stessa funzione di un sorbetto di lusso in un pranzo luculliano e la struggente “Harmony Korine”dal primo album solo di Wilson “Insurgentes” del 2008 "...feel no shame too brave, feel afraid to wait forever". Il teatro “Dal Verme” sembra dover soccombere, letteralmente centrato da un'atomica di fragorosi applausi, ma siamo appena a poco più di metà di un appagante, quanto straordinario, concerto. Il nuovo album è ormai però in dirittura d'arrivo con la proposizione del secondo brano devotamente progressive “Ancestral” una cavalcata sinistra, quasi malsana di 14 minuti, in certi punti estremamente vicino alle ultime tematiche dei “King Crimson”, che parte al trotto ed arriva al galoppo dopo aver toccato tutte le corde emotive di chi assiste lasciandoci totalmente inebetiti dal muro di suoni che si formano, si disintegrano, si riformano, si frantumano, si rigenerano e si disgregano fino all'ipnotico vortice finale. Chapeau! La seguente “Happy returns” è una ballata taumaturgica e catartica dopo quanto ascoltato in precedenza che conclude l'ultima fatica di Wilson insieme al brevissimo epilogo “Ascendant Here On” che suggella il capolavoro. Il gruppo abbandona il palco sebbene sappiamo tutti che non sarà per molto, ma vogliamo comunque ricordarglielo con un'ovazione senza soluzione di continuità che dura quasi cinque minuti poi infatti....rieccoli per una serie di bis della durata totale di quasi 40 minuti. A questo punto però, con la conclusione di “Hand. Cannot. Erase.” la mia personale tensione emotiva si è leggermente defilata e questa nuova situazione, prima della ripresa dello show, mi concede lo spazio ad alcune considerazioni che fanno di questo concerto qualcosa di veramente particolare. Innanzitutto uscendo per un attimo dall'incanto generato, mi accorgo che sto ascoltando una band dal vivo in una dimensione totale ovvero con molteplici effetti sonori che mi arrivano direttamente da dietro le spalle ed infatti mi volto e trovo una miriade di diffusori disseminati in fondo ed ai lati del teatro e per quanto mi riguarda è la prima volta che assisto ad un concerto live come se stessi gustando la perfezione di un blu-ray dall'impianto di casa mia proprio mentre il gruppo dal vivo suona di fronte a me. Che a Steven Wilson piacciano i Pink Floyd soprattutto quelli di “The dark side of the moon” è fuori da ogni ragionevole dubbio ed infatti il primo bis è “ The Watchmaker” con un intro che ricorda vagamente“Time”; nuovamente le immagini da comprimarie tornano ad avere un ruolo fondamentale: mentre ticchettii di orologi invadono ogni angolo del teatro, sul palco cala un impalpabile telo, paragonabile ad una finissima zanzariera, che non occulta affatto il gruppo ma che funge da ulteriore schermo per proporre immagini in simil oleografia che s'intersecano e si completano con il filmato dello schermo e con le luci sparate sul palco, mentre la band in mezzo a tanto strapotere visivo si concentra unicamente a suonare; il tutto è recepito da chi è seduto in poltrona come una visione onirica e surreale dell'evento che ritenevo improponibile potesse essere messa in atto dal vivo, ma evidentemente per Wilson e soci nulla è impossibile. Siamo ad un passo dalla totale multimedialità. Ancora un pezzo dei Porcupine Tree, la granitica e coinvolgente “Sleep Together” la cui potenza sonora fa letteralmente vibrare i muri del teatro e stavolta siamo davvero in dirittura d'arrivo dopo due ore di grandissimo godimento con l'ulteriore ritorno sul palco del gruppo per acclamazione e la proposizione della magnifica gemma “ The Raven That Refused to Sing” la title track del suo penultimo album che dedica al padre. Millequattrocento persone si alzano all'unisono tributando a Steven Wilson e la sua incredibile band un'interminabile standing ovation raramente riscontrabile in un concerto teatrale e mentre scorrono i titoli di coda dei filmati proiettati sul grande schermo, i musicisti sono tutti sul palco a godersi meritatamente ogni minuto di tanta generosità dell'entusiasta pubblico milanese fortemente convinto di aver assistito ad un concerto epocale, visivamente poi allo stato dell'arte. Per una volta però, e contrariamente al mio solito credo, lasciatemi dire che questo utilizzo spropositato della tecnica e della multimedialità si sposa felicemente con il lato artistico di quanto rappresentato suscitando in tutti noi, fortunati spettatori di questo evento, un coinvolgimento emotivo assolutamente fuori dal comune. (Mauro "Stellameringa" Costa)
STEVEN WILSON HAND. CANNOT. ERASE. European Tour 2015 Milano – Teatro Dal Verme 30 Marzo 2015 di Record Collectors Vault di Stellameringa
Creato il 03 aprile 2015 da KosebelleTutto questo rispettabile “background” gli ha permesso di riempire in ogni ordine di posto , per tacere di quelli rimasti fuori nella speranza di impossessarsi all'ultimo secondo di un prezioso tagliando, il magnifico e storico teatro Dal Verme di Milano, una sala a ferro di cavallo con due ordini di palchi ed un loggione che contiene comodamente più di 1.400 persone e soprattutto che ha un'acustica a dir poco eccezionale tanto da essere un punto di riferimento a Milano per i concerti di musica classica. Non ho remore a dire che dal punto di vista prettamente tecnico sia stato di gran lunga il miglior concerto cui abbia assistito, ma avrò tempo di parlarne con calma più in là. E' di quest'anno l'uscita dell'ultimo progetto solista di Steven Wilson “Hand.Cannot.Erase.” a mio parere il suo album migliore e più completo che si distacca in molte parti dagli stilemi del progrock del suo precedente lavoro per abbracciare, o per dir meglio per esaltare, la sua ricerca intrisa di inevitabili contaminazioni. E' notorio che Steven Wilson ami maggiormente lavorare in studio piuttosto che dal vivo ed è forse per questo che la riproposizione “live” dei suoi pezzi sia in realtà molto fedele a quanto inciso su supporto magnetico; tuttavia la ricerca quasi maniacale della perfezione lo porta in maniera automatica alla costruzione di uno show completo, appagante, intenso, sempre attento anche ai minimi particolari, ad esempio sappiate che dal vivo suona a piedi nudi, non certo per vezzo ma, a suo dire, per avere maggiore sensibilità con la pedaliera degli effetti. Non credo quindi sia stata casuale la scelta dei teatri acusticamente perfetti per le due date del tour italiano, il Dal Verme a Milano e il Sistina a Roma (esauriti da tempo anche questi 1.500 posti per l'esibizione del 31 marzo), Il concerto è fissato per le 21 e cinque minuti prima parte in sottofondo una versione dilatata dell'intro al piano di “First Regret” che apre il suo ultimo album che sarà poi il fulcro dell'intera esibizione. La gente in sala non è pronta, fuori stanno premendo gli ultimi ritardatari e quelli che hanno rimediato i biglietti all'ultimo minuto; le luci sono spente ma il viavai dentro il teatro è notevole, Wilson e il suo gruppo salgono sul palco ed attaccano “3 Years Older” alle 21 precise senza minimamente preoccuparsi se la situazione in platea sia ottimale o meno; qualcuno, per non disturbare, non trovando il suo posto, si siederà momentaneamente sui gradoni. Come potrete facilmente immaginare, il nostro è dotato di un certo caratterino e non gradisce le riprese del concerto o semplici foto durante l'esibizione, quindi in sala sono disseminate una pletora di belle ragazze in divisa che non appena vedono apparire la fioca luce di qualche piccolo schermo non autorizzato si affannano, in verità con buone maniere, a “consigliare” di spegnere il cellulare. Nonostante quindi qualche piccolo inconveniente la sinergia tra chi propone e chi assiste è completa ed è altresì garantita la totale immersione nello spettacolo perché è proprio di spettacolo a tutto tondo, e non solo di concerto, che andrò a riferire. “Hand.Cannot.Erase.” è un concept album incentrato sull'incredibile vicenda della trentottenne inglese Joyce Carol Vincent trovata cadavere nel 2006 nel suo appartamento di Londra dove viveva sola; la sua morte naturale risaliva a più di due anni prima infatti stava facendo i pacchetti regalo da dare agli amici per il Natale 2003, ma nessuno si era mai fatto carico di segnalare la sua scomparsa nonostante fosse carina e dotata di buon carattere, avesse delle sorelle, dei colleghi, dei compagni, degli ex fidanzati quindi una vita sociale non proprio da monaca di clausura. Il suo corpo fu scoperto perché dopo un paio d'anni di mancato pagamento dell'affitto qualcuno si presentò alla porta per consegnarle un avviso di sfratto e si trovò di fronte ad uno spettacolo agghiacciante con la tv ancora accesa vicino allo scheletro di Joyce Carol. Segnali quindi di effettiva solitudine ma, soprattutto, di un gelido, sconcertante e assoluto “menefreghismo”. Tutto ciò ha profondamente colpito Steven Wilson che dopo aver visto il documentario che trattava di questa paradossale vicenda ha deciso di costruirci sopra un “concept” album. L'esecuzione live di “Hand.Cannot.Erase”è proposta in maniera rigorosamente filologica e quindi “3 Years Older” che apre le danze, se escludiamo l'intro di “First Regret”, viene immediatamente eseguita con la magnificenza che merita essendo uno dei due pezzi più smaccatamente prog, l'altro è “Ancestral”, risultando in qualche parte un tributo nemmeno troppo velato ai Genesis di “The Cinema Show”. L'enorme schermo cinematografico posto all'estremità del palco propone immagini che non si possono definire unicamente complementari perché spesso interagendo perfettamente con le luci dello show si appropriano del diritto di protagonismo fino a quando, sedotte dalle magnifiche alchimie musicali di Wilson e la sua band, ritornano giudiziosamente in secondo piano. Una trovata tipicamente “pinkfloydiana”, ma come vedremo poi si andrà ben oltre. Con “Hand. Cannot. Erase.” la title track, Wilson abbandona il progressive per concentrasi maggiormente su una magnifica pop song di stampo tipicamente britannico che fa da apripista al primo vero sobbalzo per chi ascolta: l'ostentazione del trip-hop di “Perfect life”. Chi non conosce il nuovo album sussulta un poco sulla poltrona, ma poi ben presto si convince che anche fuori dal contesto prog Steven è una stella di primaria grandezza e ritorna a godersi lo spettacolo. La successiva ”Routine” richiama nuovamente i Genesis o per dir meglio i lavori solo di Steve Hackett, dove la storia, ma soprattutto la reale solitudine della Jones, è narrata dalla voce, e purtroppo non dalla presenza perché in dolce attesa, dell'artista israeliana Ninet Tayeb. Con il successivo brano si ritorna indietro di quattro anni con una versione molto dark di “Index” da “Grace for Drowing” che paralizza letteralmente tutti quanti... "...If I collected you and put you in a little cage I could take you out and study you every day It isn’t easy being me, it’s kind of lonely work My obligation to collecting is my only thirst." Dopo la breve digressione si ritorna all'album nuovo con la durissima e martellante epicità di “Home invasion”, che ben si adatta alla dimensione live perchè la band può scatenarsi mollando qualsiasi freno inibitorio, seguita dalla fantastica e onirica “Regret #9” uno dei momenti migliori dell'album, un brano assolutamente dominato dal magnifico lavoro al synth di Adam Holzman...brividi e peli ritti a profusione sulle braccia. E qui prendo la palla al balzo per menzionare il gruppo che accompagna Wilson perché la loro professionalità, bravura e calore è un valore aggiunto mica da poco. Detto per inciso che Steven oltre a cantare, suona il basso, la chitarra acustica e quella elettrica, le tastiere, il dulcimer, il banjo ed è anche l'artefice di tutta la programmazione e gli effetti computerizzati, diamo finalmente spazio anche agli altri motivatissimi primi attori: Guthrie Govan ( The Aristocrats, Asia) alla chitarra elettrica, Nick Beggs (Steve Hackett, Steve Howe, Midge Ure) al basso e Chapman stick, il fantastico Adam Holzman (Miles Davis, Brave New World, Fents) al piano, synth, mellotron, hammond ed infine il tedesco Marco Minneman (The Aristocrats, Joe Satriani) considerato da molti come il miglior batterista rock degli anni duemila e che, parere personale, fortunatamente evita gli asessuati Dream Theater per riunirsi ancora una volta a Steven Wilson. Per la sola data di Londra del 13 marzo scorso si unirà al gruppo anche Theo Travis (Tangent, Gong) ai fiati. Dopo i brividi di “Regret#9”, quasi a voler stemperare un attimo la tensione indotta e il pathos diffuso a profusione, arrivano in sequenza “Lazarus” un vecchio brano dei Porcupine Tree che ha la stessa funzione di un sorbetto di lusso in un pranzo luculliano e la struggente “Harmony Korine”dal primo album solo di Wilson “Insurgentes” del 2008 "...feel no shame too brave, feel afraid to wait forever". Il teatro “Dal Verme” sembra dover soccombere, letteralmente centrato da un'atomica di fragorosi applausi, ma siamo appena a poco più di metà di un appagante, quanto straordinario, concerto. Il nuovo album è ormai però in dirittura d'arrivo con la proposizione del secondo brano devotamente progressive “Ancestral” una cavalcata sinistra, quasi malsana di 14 minuti, in certi punti estremamente vicino alle ultime tematiche dei “King Crimson”, che parte al trotto ed arriva al galoppo dopo aver toccato tutte le corde emotive di chi assiste lasciandoci totalmente inebetiti dal muro di suoni che si formano, si disintegrano, si riformano, si frantumano, si rigenerano e si disgregano fino all'ipnotico vortice finale. Chapeau! La seguente “Happy returns” è una ballata taumaturgica e catartica dopo quanto ascoltato in precedenza che conclude l'ultima fatica di Wilson insieme al brevissimo epilogo “Ascendant Here On” che suggella il capolavoro. Il gruppo abbandona il palco sebbene sappiamo tutti che non sarà per molto, ma vogliamo comunque ricordarglielo con un'ovazione senza soluzione di continuità che dura quasi cinque minuti poi infatti....rieccoli per una serie di bis della durata totale di quasi 40 minuti. A questo punto però, con la conclusione di “Hand. Cannot. Erase.” la mia personale tensione emotiva si è leggermente defilata e questa nuova situazione, prima della ripresa dello show, mi concede lo spazio ad alcune considerazioni che fanno di questo concerto qualcosa di veramente particolare. Innanzitutto uscendo per un attimo dall'incanto generato, mi accorgo che sto ascoltando una band dal vivo in una dimensione totale ovvero con molteplici effetti sonori che mi arrivano direttamente da dietro le spalle ed infatti mi volto e trovo una miriade di diffusori disseminati in fondo ed ai lati del teatro e per quanto mi riguarda è la prima volta che assisto ad un concerto live come se stessi gustando la perfezione di un blu-ray dall'impianto di casa mia proprio mentre il gruppo dal vivo suona di fronte a me. Che a Steven Wilson piacciano i Pink Floyd soprattutto quelli di “The dark side of the moon” è fuori da ogni ragionevole dubbio ed infatti il primo bis è “ The Watchmaker” con un intro che ricorda vagamente“Time”; nuovamente le immagini da comprimarie tornano ad avere un ruolo fondamentale: mentre ticchettii di orologi invadono ogni angolo del teatro, sul palco cala un impalpabile telo, paragonabile ad una finissima zanzariera, che non occulta affatto il gruppo ma che funge da ulteriore schermo per proporre immagini in simil oleografia che s'intersecano e si completano con il filmato dello schermo e con le luci sparate sul palco, mentre la band in mezzo a tanto strapotere visivo si concentra unicamente a suonare; il tutto è recepito da chi è seduto in poltrona come una visione onirica e surreale dell'evento che ritenevo improponibile potesse essere messa in atto dal vivo, ma evidentemente per Wilson e soci nulla è impossibile. Siamo ad un passo dalla totale multimedialità. Ancora un pezzo dei Porcupine Tree, la granitica e coinvolgente “Sleep Together” la cui potenza sonora fa letteralmente vibrare i muri del teatro e stavolta siamo davvero in dirittura d'arrivo dopo due ore di grandissimo godimento con l'ulteriore ritorno sul palco del gruppo per acclamazione e la proposizione della magnifica gemma “ The Raven That Refused to Sing” la title track del suo penultimo album che dedica al padre. Millequattrocento persone si alzano all'unisono tributando a Steven Wilson e la sua incredibile band un'interminabile standing ovation raramente riscontrabile in un concerto teatrale e mentre scorrono i titoli di coda dei filmati proiettati sul grande schermo, i musicisti sono tutti sul palco a godersi meritatamente ogni minuto di tanta generosità dell'entusiasta pubblico milanese fortemente convinto di aver assistito ad un concerto epocale, visivamente poi allo stato dell'arte. Per una volta però, e contrariamente al mio solito credo, lasciatemi dire che questo utilizzo spropositato della tecnica e della multimedialità si sposa felicemente con il lato artistico di quanto rappresentato suscitando in tutti noi, fortunati spettatori di questo evento, un coinvolgimento emotivo assolutamente fuori dal comune. (Mauro "Stellameringa" Costa)