ROMA – Stili emozionali, ovvero come si risponde alle esperienze della vita. Una questione di cuore e di cervello. La teoria che prevede questi modi di essere è stat stilata da Richard Davidson, professore di psicologia e psichiatria alla University of Wisconsin-Madison, autore, insieme a Sharon Begley, del libro “La vita emotiva del cervello”.
Il professor Davidson individua sei stili, come spiega sul Corriere della Sera Danilo Di Diodoro: c’è la resilienza, che misura la lentezza o la rapidità con cui ci riprendiamo dalle avversità. Il tempo di resilienza si calcola in base al riflesso di ammiccamento delle palpebre: dopo un’esperienza negativa si tende ad ammiccare di più, e il fenomeno va avanti fino a quando quell’esperienza non è stata interiormente risolta.
C’è poi la prospettiva, ovvero la capacità di mantenere le proprie emozioni con il passare del tempo. Alcuni sono più propensi a conservare quelle positivi, molti solo quelle negative, talvolta persino depressive.
Un altro stile emozionale è l’intuito sociale, che si rivela quando si riescono a comprendere le intenzioni e le sensazioni degli altri cogliendone gli indizi non verbali. Una sorta di sensibilità, insomma.
Se si è in grado di leggersi davvero dentro si ha una spiccata autoconsapevolezza che porta anche ad una notevole empatia, mettendosi nei panni degli altri.
La sensibilità al contesto è invece la capacità di riconoscere che un certo comportamento è appropriato in una determinata situazione e non in un’altra.
Sesto stile emozionale individuato da Davidson è l’attenzione, cioè la capacità di restare concentrati, che implica non soltanto un’abilità cognitiva, ma anche emotiva. Il rischio di distrarsi è infatti legato al contenuto emotivo dello stimolo che ci viene offerto. Ma se quel che cattura la nostra attenzione è proprio la cosa in cui siamo impegnati e su cui ci dobbiamo concentrare significa che la nostra capacità di attenzione è elevata.