Still Alice, still Valeria

Da Gynepraio @valeria_fiore

Pensare ai possibili scenari della mia morte, nuova frontiera dell’autolesionismo. Grande classico, Charlie di Lost che, mentre il livello dell’acqua si alza progressivamente in un ambiente sigillato, apprende che i suoi amici cadranno vittime di un grave complotto, ma non può dirglielo perché, appunto, sta annegando. 

Segue a ruota l’incubo di svegliarmi nel cuore della notte mentre dei malviventi stanno girando per casa. Oltretutto, mica muoio battendomi contro i ladri che vogliono sottrarre le mie candele Ikea da 1,99€ e i miei stracci di Zara presi in saldo, bensì di crepacuore, attanagliata dall’idea della mia proprietà privata calpestata da sconosciuti (ciao Verga! ciao Mazzarò!).

Ma di tutte le paure, la più grande è avere una malattia mentale. Come molte altre splendide ventenni mie coetanee, dedico circa un’ora della mia giornata a bistrattare il mio povero corpo perchè brutto/ grasso/ pallido/ flaccido/ malfunzionante/ peloso, mentre considero la mente come un cane da guardia, un vigile urbano, una bidella, una portinaia. Una che sta lì, fa il suo dovere, senza infamia e senza lode, spesso sottopagata. In pratica, do per scontato il privilegio di essere me stessa. Quello che ti viene meno quando arriva una malattia mentale, che ti infligge giorno dopo giorno delle piccole umiliazioni, dei microtraumi -non ricordarsi una parola, non riuscire a legarsi le scarpe, non trovare il bagno-. E i traumi non sono constatazioni amichevoli, sono dolori. Credo che il malato mentale, nei suoi momenti di lucidità, provi nostalgia per il vecchio sé.

Sarà che, pur essendo bella come un angelo di Victoria’s Secret, ho erroneamente investito più energie nel mio sviluppo intellettuale che a scolpirmi il culo. Sarà che le leggi di Mendel giocano contro di me: entrambe le mie nonne -una è questa qui- hanno l’Alzheimer. Sarà che sono così piena di me che alla sola idea di non poter più sbandierare questo ego grosso come un dolmen mi vengono i brividi, ma quando è uscito “Still Alice” mi sono fiondata a vederlo.

Still Alice, di Glatzer e Westmoreland, è la storia di una moglie, madre e docente universitaria di linguistica che si ammala di una forma precoce di Alzheimer. Il morbo aggredisce la funzione espressiva, cioè proprio la sua area di eccellenza accademica. Prima di arrendersi alla malattia, Alice combatte contro i suoi demoni per mantenere una parvenza di normalità: lavorare, comunicare, cucinare, fare sport, persino tenere conferenze, attaccandosi alla vecchia sé con la disciplina dei perfezionisti. Fa continuamente dei frustranti esercizi mnemonici, studia degli escamotage per non bloccarsi sullo stesso paragrafo. Alla fine, privata della sua intelligenza e della sua identità, si rassegna ad accogliere la protezione dei suoi famigliari, e ad accettare l’amore che le danno solo per il fatto che è stata una grande moglie e mamma.

Si piange, si soffre, si pensa, quindi per me è già un sì. Ma se non riuscite a fare a meno di un giudizio rotondo e completo, ecco a voi. Kate Bosworth è insopportabile come di consueto (aiutata in questo anche dal ruolo di figlia-maggiore-palo-in-culo che sospetto le sua stato cucito addosso). Kristen Steward ricorda tantissimo la sé stessa di 7 anni fa, la Tracy di Into The Wild (cioè l’unica parte veramente bella che le abbiano mai affidato).

Con l’obiettivo di evidenziare la straordinaria donna che era Alice prima della malattia, alcune scene prendono una deriva manierista: tavole perfettamente apparecchiate, un garbo nel parlare che a casa mia non s’è mai visto, un amore coniugale tenero e zuccheroso. Alla produzione è scappata la mano con il product placement (c’era un device Apple in ogni scena) ma se serve a tirare su soldi per delle buone produzioni, io continuo a pensare che non sia così grave.

Julianne Moore è bravissima e luminosa, calda e fredda insieme: nel film peraltro si veste da professoressa come me, quindi l’immedesimazione ha raggiunto vette da metodo Stanislavskij. Per farci capire che lei è un essere superiore, ci mostra come andrebbero portati i Sorel Boots: per passeggiare all’alba, su una ventosa spiaggia del New England, durante la bassa marea per non impataccarsi nel fango atlantico. Fashion bloggers, guardare e imparare, grazie.


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