Non so bene che lavoro faccio, so che domani sono sette anni che lo faccio, in sette anni non ho ancora capito, ma dicono che sia il problema minore. Il mese scorso ho letto un articolo di David Graeber su Internazionale che diceva che questo è il secolo del lavoro stupido. Dice Graeber: “È come se esistesse qualcuno che inventa lavori inutili solo per farci continuare a lavorare”. E poi dice: “La classe dirigente ha capito che una popolazione felice e produttiva con un sacco di tempo libero è un pericolo mortale per i suoi privilegi”. E poi ancora: “Una volta, mentre contemplavo la crescita apparentemente infinita delle responsabilità amministrative nei dipartimenti accademici britannici, ebbi l’impressione di stare assistendo a una possibile visione dell’inferno. L’inferno è un insieme di individui che spendono la maggior parte del loro tempo a lavorare su un compito che non gli piace e per il quale non sono particolarmente bravi”. Ecco, il lavoro che faccio da sette anni è un lavoro che non mi piace e per il quale non sono particolarmente bravo. È inoltre un lavoro del quale la collettività potrebbe tranquillamente fare a meno. Infatti non credo che se la mattina non mi alzassi dal letto per correre in ufficio, il mondo sarebbe un posto peggiore. Eppure so che se la mattina non mi alzassi dal letto per correre in ufficio, ci sarebbe un altro al posto mio che invece si alzerebbe dal letto e correrebbe in ufficio a svolgere lo stesso lavoro, un lavoro che non piacerebbe neppure a lui e per il quale non sarebbe particolarmente bravo. Quindi so già qual è l’obiezione: ritieniti fortunato di avere un lavoro e non rompere tanto le scatole, che è sempre meglio avere un lavoro stupido che non averne. Dico subito che sono d’accordo. Quando però mi chiedono che lavoro faccio, vorrei rispondere: “Sto al sicuro, salvo per un po’, al caldo fino a domani”.
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